L'ANALISI
25 LUGLIO 1943: CADE IL FASCISMO
25 Luglio 2023 - 11:27
Nella foto di Ernesto Fazioli, l’ingresso al rifugio di piazza Marconi e Roberto Farinacci
CREMONA - La sera del 25 luglio del ‘43, l’annuncio della caduta del fascismo e dell’arresto di Benito Mussolini lo ascoltarono in pochi. Era molto tardi e il coprifuoco induceva a ritirarsi già dopo cena, e poi non tutti in casa avevano la radio. Qualcuno provò a scendere in strada. «Dopo le 22.30 mi recai nei luoghi dove eravamo soliti incontrarci noi oppositori, cercando di evitare le pattuglie di soldati, numerosissime quella notte - aveva ricordato Mario Coppetti nel cinquantesimo anniversario dell’avvenimento storico -. Di fronte alla Galleria si formò un gruppetto di persone, con me c’erano i fratelli Pezzi, il professor Bettoni e altri. La gioia era tanta, eravamo quasi increduli. Certo immaginavamo che l’invasione della Sicilia avrebbe portato novità, ma nessuno pensava fino a quel punto. Decidemmo di attaccare la sede del Regime Fascista, che in pratica per anni ci aveva chiuso la bocca ed era stata per la città l’unica voce da sentire. Ma mentre andavamo verso piazza Marconi ci intercettò una pattuglia di militari badogliani che sotto la minaccia delle armi ci fece disperdere. Gli assembramenti erano vietati, se si era in un gruppo superiore a tre persone si finiva in galera».
Il fascismo era caduto, ma molte delle leggi liberticide instaurate dal regime non decaddero né quella notte né nei giorni successivi. E soprattutto la guerra continuava. Lo aveva proclamato lo stesso Maresciallo Pietro Badoglio, a cui poche ore prima il re Vittorio Emanuele III aveva affidato il governo. Ma per un paio di giorni anche a Cremona come nel resto d’Italia la gente si illuse e si lasciò andare a manifestazioni di euforia. È sempre Coppetti a ricordare. La mattina del 26 luglio i nomi di spicco dell’antifascismo cremonese si ritrovarono nello studio dell’ingegner Giovanni Vialli a palazzo Barbò. Una delegazione andò poi in municipio: «Fummo ricevuti dal podestà Gambazzi — disse Coppetti - e lo costringemmo ad esporre il tricolore alle finestre del Comune. Sistematicamente inoltre iniziammo con il distruggere tutte le effigi del regime, busti di Mussolini, scritte inneggianti al fascismo, bandiere e gagliardetti».
Il palazzo della Rivoluzione - l’Ala Ponzone, oggi sede dell’Anagrafe e di altri uffici comunali - è preso d’assalto, ma è vuoto. In città c’è un misto di euforia e costernazione, di gioia e paura. I fascisti, soprattutto quelli più in vista, restano in casa e di camicie nere in giro non se ne vedono. «Non ci furono azioni punitive contro alcuno, nessuna violenza, fu una vera e propria esplosione di gioia, vedevamo rinascere la democrazia», sostenne Coppetti, che fu tra gli organizzatori del comizio del 27 luglio. Da più di vent’anni gli italiani non potevano riunirsi, meno che mai per motivi politici. «Arrivarono in piazza migliaia di persone - disse ancora Coppetti nel 1993 -. Fu entusiasmante. Ma avevamo fatto i conti senza i soldati badogliani. Ci caricarono, la manifestazione fu sciolta. Molti furono arrestati, io aiutai Speranzini a fuggire e a mia volta fui aiutato a scappare da un mio allievo: insegnavo all’Apc e Renzo Zaffanella, allora giovanissimo e futuro sindaco di Cremona, si mise tra me e le guardie, così riuscii a scappare».
Solo in seguito si sarebbe saputo che Roberto Farinacci, il ras di Cremona, era stato tra i protagonisti del Gran Consiglio che aveva portato alla destituzione del duce. Si schierò contro l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, proponendone uno a favore dell’alleanza con la Germania hitleriana. Questo evitò a Farinacci il successivo processo di Verona (che ebbe luogo tra l’8 e il 10 gennaio del 1944) e la più che probabile condanna a morte. Il 26 luglio, Farinacci si rifugia presso l’Ambasciata tedesca a Roma e con l’aiuto dei tedeschi si mette in salvo in Germania. È sempre stato il più filonazista tra i gerarchi e solo tre anni prima aveva organizzato un viaggio trionfale ad Hannover, Dresda, Berlino e Parigi, appena conquistata dai tedeschi. Il pretesto era la trasferta tedesca del Premio Cremona, il viaggio era in realtà l’occasione per rinsaldare rapporti diplomatici, forse addirittura amicali. Le fotografie del 1940 mostrano Farinacci e il Führer sorridenti a colloquio in un salottino della Cancelleria. In altre, è la moglie Anita a conversare amabilmente con Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, una donna che con ogni probabilità è Magda Goebbels (che ucciderà i sei figli con il cianuro prima di suicidarsi con il marito nei giorni della caduta di Berlino) e Assia Noris, diva dei telefoni bianchi. Tuttavia, quando il ras cremonese va a implorare la protezione di Hitler ottiene meno di quanto spera. Farinacci è considerato alla stregua dei traditori del duce, il Führer lo considera un vigliacco per la sua fuga. Goebbels non è da meno e nel suo diario definirà Farinacci «un babbeo» e «un imbecille maldestro». Di tutto questo, però, si verrà a conoscenza solo in seguito.
A Cremona, come nel resto d’Italia, l’euforia per la caduta del fascismo dura poco. Il governo Badoglio poco cambia delle leggi mussoliniane, i tedeschi sono ancora provvisoriamente alleati ma la loro presenza si fa ogni giorno più massiccia e fanno paura. Continuano la guerra, i bombardamenti, la borsa nera. Ma è nell’estate del ‘43 che la Resistenza si rinforza, comincia a tessere la trama che porterà alla guerra di liberazione nei mesi successivi. A Cremona, tra quanti vi contribuiscono c’è anche un giovanissimo Primo Levi. Si è messo a disposizione di Giustizia e Libertà e viene mandato a Cremona «con dei pacchi di propaganda. Di giorno lavoravo in una fabbrica di proprietà svizzera a Milano e di notte, invece di dormire, prendevo il treno e andavo a portare pacchi di stampa agli altri centri di Gl», come riporta Frediano Sessi ne Il lungo viaggio di Primo Levi. Pochi mesi dopo Levi sarebbe stato deportato ad Auschwitz. Che la guerra fosse finita, in quei giorni di luglio di ottant’anni fa, era davvero un’illusione.
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