L'ANALISI
05 Aprile 2023 - 09:31
Paolo Crepet e 'The Tempest' di René Magritte
CREMONA - «Non accendiamo più il fuoco, ci accontentiamo del nostro stare al sicuro, al calduccio. I ragazzi ci chiedono di accendere il fuoco delle passioni, di insegnare loro a sognare, ci guardano e vogliono risposte, esempi, indicazioni da noi adulti». Lancia in resta e via al galoppo del dire e pro-vocare, Paolo Crepet sarà stasera alle 21 al Ponchielli e non ci sta a tacere, non ci sta a non denunciare «che viviamo un’epoca complessa, in cui la depressione ha ceduto il passo all’ignavia, viviamo l’età dell’ignavia».
Perché età dell’ignavia?
«Perché la nostra, quella dei nostri figli, dei loro professori non si può più definire neppure depressione, ma piuttosto ignavia, ci siamo rassegnati a stare seduti ad aspettare. Da qui l’era dell’ignavia. I ragazzi aspettano che qualcosa accada, noi adulti critichiamo e, a nostra volta, aspettiamo che succeda qualcosa che ci solleciti. A fare siamo rimasti in pochi».
Questo attendere non può essere anche un sognare qualcosa di diverso?
«No — è definitivo Crepet — perché l’attesa è su qualcosa che ci viene dato indipendentemente dalla nostra volontà. Il torpore della nostra ignavia è scosso per un momento dalle novità e le novità provengono dalla tecnologia, perché oggi solo la tecnica ci dà la possibilità di misurarci con le novità. Non si tratta di sogni, ma di nuove sollecitazioni che poi pian piano passano».
La tanto temuta e vietata ChatGpt è un caso?
«Le novità riguardano le tecnologie. Non sono novità né le guerre, né le migrazioni, paradossalmente neppure le epidemie. La verità è che ci attende il nuovo visore della Apple che permette di vedere una realtà altra, aumentata. Questa è la novità all’orizzonte, un po’ poco, eppure tantissimo. Non voglio fare una crociata contro la tecnologia, ma capire quello che i mezzi che ci sono offerti possono darci. Al tempo stesso vorrei immaginare che possano essere mezzi e non mondi che ci fagocitano».
Perché? Il rischio è questo?
«Certo. Ho l’impressione che l’obiettivo in atto sia quello di creare un mondo di dementi. A essere sotto attacco è il lavoro. Le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale ci libereranno dal lavoro, non faremo più nulla, ci consegneranno più tempo, ma siamo certi che sia tempo libero? Libero da cosa? Non sarà piuttosto tempo vuoto? Ecco, non voglio dire di tornare alla catena di montaggio, ma bisogna difendere la nostra creatività, indipendentemente dall’intelligenza artificiale e dai mezzi che ci promettono di darci tutto a portata di visione e di schermo. Stamattina (ieri per chi legge, ndr) leggevo il Corriere e della nascita di un hotel costruito con progettazione in 3D. Architetti e ingegneri sostituiti dalla macchina, dall’intelligenza artificiale: questo è il futuro che ci si prospetta. Un ragazzo che sta lavorando a sistemi di Intelligenza artificiale mi ha detto: ‘Avrò più tempo per portare il cane al parco a fare pipì. Ma io non voglio’».
La soluzione qual è?
«È non essere passivi, non farsi governare, cercare di recuperare l’umano che è ciò che ci stanno togliendo. Dietro l’apparente gentilezza dei modi, oggi frequentiamo solo l’indifferenza nei confronti dell’altro, tutti impegnati a guardare a noi stessi. Recuperiamo dal nostro passato gli aspetti futuribili e raccontiamoli ai ragazzi, aiutiamoli a sognare».
È il metodo Crepet?
«Non so se sia il metodo Crepet, ma è la volontà di non darsi per vinti e di accendere quel fuoco di cui dicevo all’inizio, di poter reagire all’ignavia. Come? Beh per noi adulti recuperando aspetti del nostro passato, futuribili che ci permettano di recuperare un po’ di noi stessi. È per questo che l’altro giorno ero a Benevento, stasera (ieri per chi legge) sarò a Treviso e domani (oggi per chi legge) verrò a Cremona, al Ponchielli. Mi auguro di svegliare le coscienze, di dare una scossa a chi viene ad ascoltarmi, non per narcisismo o egocentrismo del pensiero, ma perché sono convinto che se non facciamo qualcosa rischiamo di perderci, se già non siamo persi».
In questo i suoi interlocutori privilegiati sono i ragazzi?
«Sono le loro domande che mi atterriscono. Mi chiedono perché credere nei sogni, perché avere stima di sé. Il loro è una richiesta d’aiuto che la scuola non intercetta e ignora. Ma sentite parlare un professore: dopo cinque minuti ti addormenti, non passa nulla, nessuna emozione, nessuna passione, nessun fuoco acceso. Bisogna fare qualcosa di esplosivo. Basterebbe portare un vecchio e farlo raccontare, fargli dire come viveva quando lui era giovane, far recuperare dalla memoria quell’umanità che stiamo perdendo».
Guardando al passato?
«Sì, ma in una prospettiva futura. Pensiamo alla fruizione dei testi filmici prima dell’avvento dei cellulari, pensiamo al rito dell’andare al cinema insieme, e magari dopo a mangiare la pizza per commentare il film. Si tratta di un’esperienza di comunità e non solitaria. Oggi guardare un film vuol dire, se va bene, vederlo alla tv, senza il buio della sala, ma con luci accese, da soli e non in una condizione di socialità».
Questo basta?
«Non lo so, ma raccontiamo ai ragazzi che un’alternativa c’è. Chiediamo loro di essere eretici, ovvero di fare una scelta, di non prendere tutto passivamente. Eretici non solo solo i Maneskin, per quanto bravi, essere eretici vuol dire fare una scelta, cercare una propria via, anche in barba a quello che dicono gli altri. Per farlo i nostri ragazzi hanno bisogno che anche noi ci attiviamo. Non accontentiamoci del buono che abbiamo, non appiattiamoci su quello, cerchiamo nuove sfide e nuovi orizzonti, recuperiamo la capacità di emozionarci ed emozionare. Per questo continuo a lavorare, a incontrare persone, per questo cerco di dare stimoli, di pungolare la nostra coscienza impigrita, di accendere o riaccendere quel fuoco perché ci si possa tornare a scaldare con l’umano, con l’incontro con l’altro, anche quando questo è goffo, non bello, ma sa essere autentico».
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