L'ANALISI
22 Settembre 2025 - 05:25
Ambrogio Rossetti insieme alla moglie Giovanna
CREMONA - Seconda fila centrale a sinistra del palco, poltrona numero 248. «Quello è il mio posto e guai a chi me lo tocca, fosse anche il presidente della Repubblica». Ambrogio Rossetti, 77 anni, ex dirigente d’azienda, viaggiatore instancabile, attivo nel volontariato e pilastro di Agropolis, sorride. È uno dei super abbonati, da 55 anni, del Ponchielli. «La musica è la colonna sonora della mia vita, la cosa più importante dopo la famiglia e gli affetti. Ha il potere di dire ciò che altrimenti non si conoscerebbe. Copro tutti i generi, dall’antica alla contemporanea. Ma specialmente la lirica». La nuova stagione si aprirà, con la Carmen, il 3 ottobre, e il melomane nato a Quistro, frazione di Persico Dosimo, si prepara ad allungare la sua striscia di spettatore fedele e competente.
Il suo è un amore sbocciato da bambino. «Sono figlio di contadini, abitavamo in una vecchia cascina. Mio padre, Angelo, aveva una radio e non mi perdevo mai una trasmissione, non ricordo il nome, di musica impegnata anche se, come tutti i ragazzini, non mi dispiaceva quella leggera. Avevo 10 anni». Poi i suoi si sono trasferiti a Cremona. «Mi sono avvicinato a un personaggio a cui devo tantissimo: Ennio Gerelli, il fondatore della Camerata, un grande direttore d’orchestra che, probabilmente, meriterebbe maggiore gratitudine dalla sua città. Gli devo la vera scoperta della musica classica, specialmente quella barocca».
A 16 anni, nel 1964, la sua prima volta tra i velluti e gli stucchi del Ponchielli. «Che emozione. Mia madre, Elisabetta, faceva la collaboratrice domestica in una famiglia di professionisti che, saputo da lei della mia passione, mi regalarono il biglietto, ovviamente in loggione, per il concerto di David Oistrach. Sono cose che non si possono dimenticare». Poco dopo la sua prima opera. «Certo che me la ricordo: la Bohème. Mi aveva accompagnato mia sorella, Mariarosa, di 3 anni più giovane di me. La protagonista era Rosanna Cartèri, una soprano molto famosa con una voce meravigliosa che si ritirò presto dalle scene per ragioni personali. Correvo nei camerini per ringraziare gli artisti e chiedere l’autografo». Allora il Ponchielli era di proprietà di un gruppo di privati. «Ho sentito rappresentazioni liriche pregevoli e altre meno. Le stagioni venivano programmate in base alla disponibilità delle risorse economiche. Magari si puntava sul nome di grido e il resto era un po’ così. Da quel momento ho quasi sempre rinnovato l’abbonamento».
Cominciando dal loggione. «Non potevo permettermi altro». A quell’altezza gli aneddoti sono innumerevoli. «Era un mondo di appassionati del bel canto, veri e veraci. Come il mio amico Mario Lipari: era claudicante a causa della polio, lo precedevo per tenergli il posto. Con lui siamo andati in giro per i teatri di mezza Italia, Torino, Firenze, Genova, Venezia, Bari e, naturalmente, La Scala, dove ho ammirato Leonard Bernstein». Seduto vicino a loro c’era un altro esperto. «Il mio insegnante alle elementari, il professor Pontiroli. Una sera si è sentito qualcuno scartare delle caramelle: era lui. Mariolino, chiamavamo così il mio amico, si è lamentato, per usare un eufemismo. Il giorno dopo, con non chalance ed eleganza, il professore si è presentato con le caramelle già scartate. Quando Mariolino ci ha lasciati, Angela Cauzzi ha deposto una rosa sulla sua poltrona». Un altro suo compagno era Roberto. «Davvero terribile, non ne lasciava passare una. Come quella volta a Reggio Emilia per l’Alzira, un lavoro di Verdi mai eseguito prima. A un certo punto, in un silenzio assoluto, se n’è uscito con un verso che imitava in miagolio. Tutti gli spettatori hanno riso. Dopo mi è dispiaciuto per la povera cantante bersagliata in quel modo. Roberto ha anche dato un’ombrellata in testa a uno che non stava zitto. Io sono decisamente meno rigido, più tollerante: non ho mai dato ombrellate a nessuno ma confesso che qualche volta ho fischiato».
Dal Ponchielli il veterano degli abbonati ha visto passare artisti diventati poi famosi. «Come, in un’indimenticabile Lucia di Lammermoor o nella Sonnambula, Jessica Pratt, che oggi è una dei soprani più gettonati al mondo. Un altro spettacolo bellissimo fatto da giovanissimi è stato il Werther di Massenet diretto da Daniele Gatti. 30-35 anni fa è venuto a Cremona Myung-Whun Chung, il prossimo direttore musicale della Scala. Non sapevamo pronunciare il suo nome e prima del concerto ci siamo detti: Carneade, chi è costui? Per poi guardarci negli occhi alla fine: sentiremo ancora parlare di lui». Invece Aldo Protti era già una celebrità. «L’ho visto varie volte, nell’Ernani, nel Rigoletto, forse anche nel Trovatore. Era un po’ matto, poteva capitare che arrivasse con la voce raffreddata ma, nei momenti di forma, era strepitoso».
Poi il passaggio diretto, scavalcando la galleria, alla platea. «Lì si è più paludati. Per quanto riguarda l’acustica, per me il loggione è il luogo ideale perché, si sa, la musica sale; la platea è discreta; i palchi un po’ meno». Rossetti è cresciuto nel solco della tradizione ma non è chiuso alle riletture in chiave moderna. «Non sono per le messe in scena con i fondali in cartapesta, roba da museo, ma per aggiornarle. Non mi ritengo un prevenuto. Naturalmente, dev’esserci il rispetto per la musica; se si inventano soluzioni strane per stupire, allora no. Come quel Barbiere di Siviglia ambientato nella Chicago degli anni ‘50, una forzatura che non accetto. Non a caso La Provincia intitolò: ‘il Barbiere vuole fare l’americano’. Oppure quel Don Giovanni trasformato in uno stupratore: provocazioni del regista per far parlare di sé e non dell’opera».
In questi anni il pubblico è cambiato. «Molti volti non ci sono più. Ho notato una partecipazione abbastanza buona di giovani. Questo fa ben sperare perché altrimenti la lirica, visti i suoi alti costi, non credo possa avere un futuro. Mi auguro di sbagliarmi. Questi ragazzi, inoltre, mi sembrano abbastanza preparati». Rossetti ha conservato i programmi di tutte le serate. «Ne ho una barca qui in casa, oltre a due scatoloni in garage. Proprio nei giorni scorsi ho fatto un censimento delle opere che ho sentito: più di 200 una diversa dall’altra». Inutile dirlo, ha rinnovato l’abbonamento per la stagione lirica alle porte oltre a quello, in un palco con la moglie Giovanna, per la concertistica. «Mi piace andare alla ricerca del titolo che non conosco e quest’anno ce n’è uno: il Don Quichotte di Massenet. Sono ansioso di vederlo. Ma lo stesso vale per i Puritani di Vincenzo Bellini, una proposta accattivante, un capolavoro complesso che richiede interpreti di grande valore. E poi l’Elisir d’amore, un classico, una meraviglia. Senza dimenticare la Carmen e il Nabucco, che ho ascoltato varie volte». Lassù o in basso, sulla (nuova) poltrona numero 248.
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