L'ANALISI
LE STORIE DI GIGIO
08 Settembre 2025 - 05:20
Carlos Roberts a sinistra e da bambino in Patagonia
CREMONA - Dalla natura alla musica, dal silenzio alle melodie, da una bellezza a un'altra bellezza. Dagli spazi infiniti della Patagonia, dov’è nato e cresciuto, a Cremona, da dove voleva fuggire e invece si è fermato. È l’affascinante viaggio compiuto da Carlos Roberts, 71 anni, liutaio specializzato nella riproduzione di strumenti che si ispirano agli antichi “gioielli” dei grandi maestri. Sul tavolo di lavoro, nella bottega in piazza Sant’Antonio Maria Zaccaria, un violoncello in costruzione, la sua passione; in un angolo, una scatola con le fotografie, di ieri e di oggi, del suo Paese, così lontano, magico, selvaggio. «Ci torno spesso perché sono legato alle mie radici».
La città d’origine dell’artigiano argentino è Trelew. «Una zona desertica a sud del 42° parallelo abitata dai discendenti della popolazione indigena (i Mapuche), come mia mamma, e discendenti, come mio papà, degli immigrati gallesi: il primo nucleo arrivò nel 1865 sul veliero Mimosa». Il padre era contadino e installava mulini a vento. “Erano necessari per sfruttare l’acqua del fiume che scende dalle Ande. Con lui ho trascorso molto tempo in campagna”. È quella la Patagonia come ce la si immagina. «Aspra, ventosa, isolata, immensa, con un cielo limpidissimo, chiaro, circondata da una pace interrotta solo dal volo degli uccelli». La musica è entrata molto presto nella sua vita. «Dall’Europa i gallesi avevano portato la tradizione dei cori, io cantavo in quello municipale, uno dei più importanti del nostro villaggio».
Carlos ha frequentato i primi tre anni di liceo a Trelew ma per completare gli ultimi tre ha dovuto trasferirsi, nel 1972, a Buenos Aires, 1.500 chilometri di distanza. Aveva 18 anni. «Conseguito il diploma, mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria meccanica ma per poter stare a Buenos Aires, dove vivere era abbastanza difficile, ho svolto diversi lavori, nei cantieri navali, in una fabbrica d’auto e altro ancora. Era il periodo del ritorno di Peron e del caos politico seguito alla sua morte». Poco dopo, nel 1976, il colpo di Stato e il regime dei colonnelli.
Risale ad allora la svolta per il figlio del vento. «Un giorno - ero a casa di un amico - ho visto un violino sul comò. Dopo aver chiesto il permesso di toccarlo, l’ho preso tra le mani e l’ho annusato, letteralmente. Non so, emanava un tale profumo... mi sono detto: devo costruire uno strumento come questo. Ho dedicato tutte le mie energie per scoprire se ci sarei riuscito. Partivo da una sensazione, senza aver avuto esperienze precedenti. Ho cominciato a cercare nelle biblioteche e negli altri posti dove raccogliere informazioni». Sino a quando ha incrociato un liutaio italo-argentino, Alessandro Bertoncello. «Mi ha regalato il materiale, il legno per il mio violino. Mi ha chiesto: come pensi di farlo? Da solo, gli ho risposto. E lui: va bene, vieni da me una o due volte alla settimana. Così per 2-3 anni». Nel febbraio del 1987 il primo viaggio in Italia. «Sono passato da Cremona e ho visto la nebbia, che allora non faceva sconti. Volevo scappare via, dov’ero capitato?»
È tornato pochi mesi dopo, ad ottobre. «Mi ha raggiunto mia moglie, Monica, anche lei argentina. Teoricamente avremmo dovuto fermarci per un breve periodo; invece, per il momento, siamo qui da 37 anni». Gli studi alla Scuola civica di liuteria di Milano (“Facevo il pendolare”), il corso biennale di archettaio della Regione Lombarda e l’apertura della prima bottega, condivisa con un collega, in via Milazzo. Poi, nel 1994, quella in via Sicardo e, dal ’98, nella sede attuale, che in precedenza ospitava un’agenzia immobiliare con vista sul Battistero e il Duomo. «All’inizio le cose andavano bene, c’erano tante richieste di strumenti dall’estero, dal Giappone, da Taiwan. Invece dopo le Torri Gemelle e il crac della Lehman Brothers, è cominciata e sta continuando una fase complicata, sono diversi i posti in cui si possono trovare violini». Gran parte della sua produzione è stata dedicata ai violoncelli. «Una settantina, tanti. Il violoncello mi è piaciuto, se lo fai e funziona, vai avanti a farlo». Un’altra sua specialità sono gli strumenti copie di quelli usciti dalle mani dei capostipiti di questa arte, soprattutto Guarneri del Gesù, o, come si dice, “antichizzati”.
Dai Roberts la musica è di casa. «Mia moglie è una cantante, a Buenos Aires faceva parte del Coro polifonico nazionale. Quando è venuta in Italia, ha studiato musica barocca e insegna canto». La stessa passione delle due figlie: Arianna, 31 anni, antropologa a Londra, che ha avuto complessi a Cremona e vinto concorsi; Amanda, 24, fresca reduce dalla pubblicazione del suo quarto singolo. Un capitolo a parte merita il loro famoso fratello, Edwyn, 32, cantautore, compositore e paroliere, primo classificato con “Fai rumore”, interpretata da Diodato, al Festival di Sanremo 2020. Per l’orgoglio del padre. «Quand’ero a Buenos Aires, ascoltavo i Festival di Nicola Di Bari, Lucio Dalla, Massimo Ranieri. Mi ricordo che il giorno dopo la fine si vendeva già il disco della canzone vincitrice in spagnolo. Incredibile!»
Ha ancora i parenti in Patagonia, ci torna spesso. «Certo che è cambiata, il mio paese nativo è passato da 3 mila a più di 100 mila abitanti. Un boom legato, in parte, a un episodio particolare accaduto in passato quando per popolare il Sud dell’Argentina, una zona franca, venne dato un incentivo a tante industrie per insediarsi, con le industrie sono arrivate le persone. Quand’ero ragazzino, c’erano villaggi piccolissimi con pochissima gente. Ma è anche vero che i grandi centri sono solamente 4 o 5». Tra l’uno e l’altro il tempo si è fermato. «Le distanze continuano ad essere enormi: la prima grossa città da Trelew verso sud dista 300 chilometri che diventano 700 per trovarne una in direzione delle montagne. In mezzo non c’è niente». Ora i turisti sbarcano in massa, in passato i viaggiatori erano avanguardie isolate. Chatwin era uno di loro. «Da bambino guardavo quei forestieri e mi domandavo: cosa vengono a cercare qui? Poi ho capito: cercavano il fascino del contatto con una natura dura, violenta. Quando c’è il sole, si sente davvero il sole; quando c’è il vento, si sente il vento: quando c’è il freddo, il freddo; l’immensità, l’immensità». Là, nella poesia ai confini del mondo.
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