L'ANALISI
25 Agosto 2025 - 05:25
A sinistra a Istanbul nel 1965. A destra il concerto dei 70 anni
CREMONA - Ha girato il mondo, conosciuto Mina, incontrato i Beatles. E tagliato il traguardo dei 70 anni di carriera artistica. Un record o quasi festeggiato, poche settimane fa, con un concerto alla Bissolati. Quanti come lui? Pochi, pochissimi. «La musica è tutto per me, è ciò che mi tiene in vita», dice Piero Guaragni, 88 anni («Compiuti»), il versatile batterista dalle mani d’oro che ha attraverso tutti i generi con una predilezione per il jazz e lo swing. «Un po’ meno per il rock».
Una lunga parabola cominciata da bambino, alla fine della guerra, tra le mura della trattoria, La Busa di via Mantova, di proprietà del nonno. «Dietro il locale aveva un orto che si trasformava in pista da ballo. Mia madre vendeva i biglietti tenendomi in braccio. Poi, grazie a un parente di mia zia, ho iniziato con la fisarmonica e imparato a leggere le note». Era destino che passasse alle percussioni. «Da piccolo picchiavo sui tegami nel cortile di casa, in via XX Settembre, 65». Crescendo il divertimento è diventato un sogno da inseguire con ostinazione. «Andavo a lezione in città da un batterista che si chiamava Brianzi e, per due anni, a Milano dal maestro Gil Coppini. Era il periodo delle feste, dei veglioni studenteschi. C’era un tipo, il signor Apuzzone, che il sabato organizzava le serate, anzi, i pomeriggi danzanti. E mi chiamavano tantissime volte con il mio trio composto anche da Nanni Modesti alla chitarra e Pino Villa al pianoforte. Andavamo al Circolo del Giardino, a quello della Caccia, all’Accademia d’Armi; eseguivamo i brani più gettonati dei cantanti in voga, da Claudio Villa a Nilla Pizzi, ma anche tango e valzer, quelle cose lì».
Guaragni ricorda con lucidità ogni particolare, mette perfettamente in fila le date. Il grande balzo è stato con i Pellicani. Nel quintetto anche Piero Bobbi (vibrafono, fisarmonica, sassofono), Tarcisio Portesani (pianoforte), Fausto Pitturazzi (tromba), Paolo Casotti (voce e basso).
«Ci hanno ingaggiato a Istanbul per quattro stagioni, dal ’65 al ’68, da ottobre a maggio. Al Palazzo dello Sport abbiamo accompagnato Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, Petula Clark».
Un posto particolare occupa l’anno ininterrotto a Karachi, in Pakistan. Sembra incredibile. «Invece è proprio così: dodici mesi di fila, li ho ribattezzati “la nostra prigione dorata”. Ci siamo arrivati tramite il nostro impresario, un tedesco, che aveva rapporti con l’ambasciata del suo Paese in Pakistan. Abbiamo conosciuto Ali Bhutto, che poi sarebbe diventato presidente, il sabato sera andavamo a suonare a casa sua. Si guadagnavano dei bei soldi. Lo stipendio mensile di mio padre, ferroviere, era di 120mila lire; il mio il doppio, oltre a vitto e alloggio gratis».
Un complesso cremonese dall’altra parte del mondo: una notizia da prima pagina. «La Provincia ci dedicò un titolone scrivendo che ci eravamo fatti onore lontano dal Po». Dopo il Pakistan, Hong Kong, all’Hotel Paramount «che dominava tutta la baia. Molto spesso veniva a sentirci il grande attore William Holden».
Tante altre le star incrociate dal percussionista sulla sua strada. «Ad Amburgo abbiamo incontrato i Beatles, che allora non erano nessuno, e Fred Bongusto: mangiavamo con lui al Bar Sicilia».
Mezza Asia, nell’album dei Pellicani, ma anche molta Europa. «Finlandia; Spagna; Svezia, dove abbiamo sostituito Bruno Martino; lo Sporting Club di Montecarlo, al posto di un’orchestra. Che serata».
Per non parlare dell’Italia. «Ci volevano ovunque, anche da un angolo all’altro della Liguria».
Uno come lui, protagonista della storia musicale di Cremona, non può non essersi imbattuto, anche per l'appartenenza alla stessa generazione, in Mina, nonostante non l’abbia mai avuta al suo fianco. «Avevamo 13-14 anni, io frequentavo l’istituto commerciale, lei la ragioneria: era molto esuberante, estroversa al massimo. Alle 12.30, dopo la scuola, invece di tornare a casa, correva alla Baldesio a fare il bagno».
La fine del professionismo vero e proprio non ha coinciso con la fine della passione. Al contrario. «Ecco questa fotografia del 1970: io al Cittanova con Joséphine Baker, invitata dall’ingegner Carutti».
Da allora ha cambiato vari gruppi e colleghi, impossibile ricordarli tutti. «Ma voglio citare Mario Dellanoce, uno dei pianisti più talentuosi». Un artista giramondo, Piero, ma con la testa sulle spalle. «Di ritorno dalla Turchia, dove avevamo un altro anno di contratto, un amico mi ha informato che alla Sperlari cercavano degli ispettori sul territorio e io, sapendo che non sarei mai riuscito ad entrare in un’orchestra stabile perché non avevo il diploma del Conservatorio, ho accettato. Ma, lavorando anche il sabato pomeriggio, non potevo più fare le prove, che sono fondamentali, e così ho dovuto smettere di suonare». Ha ripreso poco dopo quando è stato assunto alla Vergani. «Lì avevo il sabato libero. Andavamo nei paesi, alle feste, alle canottieri. Un Capodanno siamo saliti sui biliardi della Bissolati trasformati in palco».
Nel 2017 un altro stop. «Mentre ero dal medico ho avuto un infarto. Dal momento che la batteria è uno strumento, diciamo così, di movimento, il mio cardiologo mi ha consigliato di smettere». Ma la pausa forzata è durata un anno soltanto. «Poter riprendere per me è stato come rinascere. Ora facciamo jazz e bossa nova. I componenti della mia band attuale, la Bottega delle melodie perdute, sono tutti bravi, ma abbiamo una clarinettista, Sara Manzoni, che è una vera fuoriclasse».
Lui è rimasto un professionista serio, metodico. «Per fare la mano mi alleno mezz’ora quasi ogni giorno usando le bacchette sui cuscini. Il mio strumento è in cantina, ho tre rullanti, ma non posso esercitarmi perché abito in un condominio. Chiaro, no? E comunque adesso, visto il nostro repertorio, uso di più le spazzole».
Di se stesso dà questa definizione: «Non sono mai stato un batterista funambolo che cerca l’assolo in ogni momento. Ma tutti mi hanno sempre detto che vado a tempo in modo perfetto: sono un metronomo».
«Tante soddisfazioni» e un solo rimpianto, anche se questa parola non gli piace. «Forse ci è mancata l’incisione di un disco. Ma Pitturazzi, il capo orchestra dei Pellicani, ci ripeteva sempre: ragazzi, i nostri amici sono in banca o in altri uffici, il nostro mestiere invece è questo, teniamocelo stretto». Ha in programma un altro concerto, il 3 ottobre a Castelverde. Insomma, nessuna intenzione di fermarsi. E, alla faccia dell’età, si emoziona ancora davanti ai tamburi e ai piatti. «Non farlo vuol dire non avere un’anima». Quando gli si chiede cosa significhi per lui il caso raro di una carriera musicale così lunga, ricca e intensa come la sua, risponde senza esitare: «Significa che la vita mi ha regalato tutto quello che c'era da regalare».
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