L'ANALISI
27 Agosto 2025 - 05:10
SONCINO - «Io ero uno dei giornalisti a bordo dell’Ocean Viking per documentare le missioni di soccorso. E, sì, ho scattato delle foto e fatto dei video anche se mi stavano sparando addosso. Anche se avevo paura. Se sono un eroe? No, ma proprio per niente, sono uno che ha la fortuna di fare un lavoro che ama. Non raccontatemi così perché non lo sono e non lo voglio essere»
A fare questo breve ma incisivo resoconto è Massimo Cavallari, fotoreporter soncinese, sfortunato protagonista del tiro a segno delle navi libiche sulle navi dei profughi, sbarcato ieri a Ragusa dopo la crisi nel Mediterraneo.
Era da poco passato metà pomeriggio quando, ricorda Cavallari, «intorno alle tre siamo stati intercettati da un vascello della cosiddetta guardia costiera libica». L’aggettivo ‘cosiddetta’ non è casuale: dietro a quella sigla, spiega infatti, spesso non ci sono forze regolari ma milizie armate che si muovono con modalità violente e fuori da ogni cornice legale. L’accusa è chiara: non si tratta di forze dell’ordine nel nostro senso occidentale del termine, ma di veri e propri pirati al soldo del potere. E il prosieguo della storia non delude, in effetti, colpi di scena.
«Ci hanno intimato di fermarci – racconta il giornalista di Soncino –, nonostante ci trovassimo in acque internazionali e fossimo in regola. Poi, all’improvviso, hanno aperto il fuoco». Il primo istinto del fotoreporter è stato quello che brucia nel Dna: scattare. «La mia reazione è stata prendere la macchina fotografica e documentare. È una risposta istintiva, fa parte del mio lavoro e di ciò che continuerò a fare. Ma non nascondo che mi ha scosso profondamente e non penso ci sia nulla di eroico o coraggioso in tutto questo. Si tratta di istinto puro. L’eroismo è altra cosa...».
Le raffiche, stavolta, non erano spari in aria: «Hanno mirato ad altezza d’uomo, colpendo lo scafo e girandoci intorno a velocità sostenuta. Non era la solita sceneggiata intimidatoria, come purtroppo capita spesso, ma un’azione durata venti minuti, con spari in tutte le direzioni. A un certo punto ci siamo dovuti buttare a terra per proteggerci».
Il tutto, continua Cavallari, «mentre tentavamo di comunicare via radio: nessuno di loro parlava inglese, non c’era alcuna legittimazione a ordinare l’alt. Noi abbiamo seguito il protocollo, avvisando le autorità italiane e lanciando il mayday. Abbiamo anche i dati Gps per dimostrare che ci trovavamo in acque internazionali».
In quel frangente il foto-giornalista ha continuato a riprendere, quasi senza rendersene conto: «La macchina fotografica diventa un filtro tra me e la realtà. Ti dà la sensazione di mettere una distanza fra ciò che stai vivendo e ciò che stai registrando. È il mio modo di reagire».
Poi la riflessione, a freddo: «È stato un attacco vero e proprio. Non c’erano ragioni di sicurezza né circostanze particolari: solo il tentativo di intimidire, di fermare, di imporre la forza bruta. Ma qui non si parla di navi militari contro altre navi militari: qui si parla di uomini armati che sparano su un equipaggio civile, su soccorritori che salvano vite in mare».
Cavallari conosce bene le rotte, i rischi e le dinamiche delle missioni di salvataggio, ci ha già scritto un libro: «Succede spesso che ci vengano incontro, che si avvicinino e ci ordinino di fermarci. Ma stavolta è stato diverso, hanno deciso di sparare. Deve far riflettere».
Racconta anche un dettaglio quasi surreale: «Indossavano mascherine chirurgiche mentre sparavano. Una scena paradossale». Alla fine, dopo venti interminabili minuti, le raffiche si sono interrotte e il vascello si è allontanato. Cosa resta, dunque? La paura, certo, ma anche la convinzione che il lavoro del cronista sul campo abbia un senso.
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