L'ANALISI
LE STORIE DI GIGIO
11 Agosto 2025 - 05:25
Antonio Lascala, la figlia Vincenza, la moglie Elvira (il giorno del matrimonio della figlia nel 1975, cinque anni prima della strage di Bologna). Di fianco ancora Vincenza Lascala
CREMONA - `Si era messo in viaggio perché voleva pescare lungo il Po. «Ci saremmo andati insieme. Ma il ritardo del treno dal Sud gli ha fatto perdere la coincidenza a Bologna per Cremona e ha dovuto aspettare il prossimo collegamento. Prima, però, è esplosa la bomba. La sua vita ma anche la mia si sono fermate quel giorno», dice la figlia, che allora abitava in città. C’è uno lato cremonese poco conosciuto nella strage del 2 agosto 1980, il capitolo di Francesco Antonio Lascala, ucciso all’età di 56 anni, e della sua secondogenita, Vincenza Lascala, oggi settantaduenne.
Antonio Lascala, centralinista delle ferrovie da poco in pensione, era originario di Bianco, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, ma, dopo la guerra, si era trasferito nel vicino capoluogo.
Aveva tre figli: Domenico (anche lui ferroviere), Giuseppe (impiegato di banca) e Vincenza, per tutti Enza. Che inizia a raccontare: «Per puro caso, grazie a un’amica, ho incontrato un cremonese, Osvaldo Ottoni, rappresentante di libri per le scuole, e ci siamo sposati: avevo 27 anni. Nel 1975 l’ho seguito a Cremona. Allora facevo la casalinga ma, quando potevo, andavo ad aiutarlo. La nostra casa era in via dei Tribunali, accanto alla Questura. Erano i tempi di Mina e Tognazzi, non potrò mai dimenticare il Duomo, il Torrazzo e la nebbia che, a volte, impediva di vedere gli uffici giudiziari dall’altra parte della strada. Mi dicono però che adesso quelle nebbie non ci sono più».
I Lascala erano una famiglia molto unita nonostante i chilometri che separavano i suoi componenti. «Papà veniva spesso a trovarmi, per farlo accumulava i giorni di riposo. Lo chiamavo al telefono: ti sei dimenticato di me? E lui correva. Gli piaceva Cremona, con la sua tranquillità, i suoi ritmi». E con il Po. «Era un appassionato, un esperto di pesca, come lo sono anch’io, con tanto di licenza, e pure mio marito. Andavamo tutti e tre insieme a cercare le trote, i cavedani. Avevo preparato tutte le attrezzature anche quel 2 agosto di 45 anni fa». Ma canne e mulinelli sarebbero rimasti nel garage.
Il padre, partito la sera prima da Reggio Calabria, era sceso a Bologna. Ma il convoglio da Reggio aveva accumulato un ritardo di tre ore facendogli perdere la coincidenza. E così Antonio stava aspettando sul binario numero 1 il collegamento delle 11.05 per Fidenza e da lì per Cremona. Ma, alle 10.25 di quel sabato, l’esplosione: è rimasto schiacciato sotto la pensilina.
«Con uno dei miei due bambini, Maurizio, mi ero recata ad aspettarlo alla stazione di Cremona. Poi — riprende la figlia — saremmo scesi in Calabria per le vacanze. Del treno di papà non c’era traccia, poco dopo hanno cominciato a circolare le prime notizie rilanciate dai giornali: a Bologna è scoppiata una bombola di gas. E proprio da Bologna è arrivato un treno, l’ho percorso tutto dalla coda alla testa, ma papà non c’era. Allora mi sono precipitata a casa per telefonare in questura, ma non mi dicevano nulla».
A quel punto è salita lei su un treno che faceva il tragitto contrario, da Cremona a Bologna, a quello del padre. «Quando chiedevo informazioni dando il nostro cognome, mi veniva risposto che Antonio Lascala non risultava nella lista dei ricoverati in ospedale. Tantissime persone scavavano con le ruspe tra le macerie, è stata tirata fuori una donna ancora viva, speravo potesse essere papà, ma non era così. Un giornale, credo fosse Il Resto del Carlino, riportava il primo elenco dei nomi delle vittime tra i quali c’era, storpiato, anche quello di mio padre ma mi sono auto-convinta che non era il suo. La stampa di quella pagina era talmente fresca che l’inchiostro mi sporcava le mani».
Nel frattempo da Reggio erano partiti la moglie, Elvira, e gli altri due figli. Con un brutto presentimento nel cuore. «Papà era un abitudinario, telefonava per aggiornare sui suoi spostamenti, ma quella volta non l’ha fatto», dice Giuseppe, 69 anni, il terzogenito. È stato lui a identificare la salma. «L’ho riconosciuto dal viso. Sono momenti che non si possono spiegare».
«Mio padre era un persona buona e cortese non solo con noi ma con tutti», la figlia lo descrive così. E il figlio più giovane: «Era generoso, altruista». Da allora niente è stato più come prima. Anche per Vincenza. «Ho lasciato subito Cremona perché non riuscivo più a starci. Mio marito ha compreso la mia sofferenza e mi ha raggiunto». «Lei lo ha fatto anche per rimanere accanto a nostra madre, per portarle un po’ di conforto, un po' di sollievo», aggiunge il fratello, che non ha più avuto la forza di tornare a Bologna. «Spero in futuro di recarmi in quella stazione, ma non so quando né come». La sorella, invece, ha trovato il coraggio. «È stato in occasione di una rappresentazione teatrale. Un’attrice molto brava ha interpretato mio padre vestita da pescatore. Qualche volta sono stata pure a Cremona, anche se è da diversi anni che non ci vengo più».
I vari processi, alla fine, hanno scritto la verità sulla strage. Il presidente Sergio Mattarella commemorando, nel 45° anniversario dell’attentato, le 85 vittime ha parlato di «una spietata strategia eversiva neofascista che mirava a colpire i valori costituzionali, le conquiste sociali e, con essi, la nostra stessa convivenza civile». Pur tra le polemiche, è stata fatta giustizia.
Eppure i figli del ferroviere che amava Cremona non si danno pace. «Le varie amministrazioni comunali di Reggio Calabria che si sono succedute non hanno reso omaggio a mio padre intitolandogli una via o in altro modo. Una freddezza inspiegabile che rende ancora più dolorosa la nostra ferita», afferma Giuseppe. «Si tratta di un vero e proprio blocco di ghiaccio — rincara la sorella —. Il nostro appello non è mai stato ascoltato, combattiamo ma non c’è niente di fare. Non sono riuscita a realizzare il mio sogno, non un sogno di grandezza ma di qualcosa di giusto, che ci spetta di diritto, Basterebbe una lapide, una targa, ma Reggio vive in una bolla di sapone».
I Lascala non sono soli nella battaglia. Il Circolo culturale L’Agorà e il suo presidente, Giovanni Aiello, hanno abbracciato la richiesta di «conservare, con atti concreti, la memoria storica e onorare il nostro concittadino. Ma cala puntualmente il silenzio, la cosa si è ripetuta anche quest’anno». Non solo: «Reggio non ha mai partecipato con il gonfalone del Comune alle celebrazioni bolognesi della strage». Quello di Cremona, invece, ha sempre sfilato. È come se l’avesse fatto anche per il ferroviere venuto da lontano a pescare lungo le rive del Po.
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