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LE STORIE DI GIGIO

La volontaria che apre la porta del suo cuore

Paola Cinquetti da vent’anni si occupa dei bambini in ospedale con l’associazione Abio

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

21 Luglio 2025 - 05:25

La volontaria che apre la porta del suo cuore

Paola Cinquetti e la sala giochi dell’associazione

CREMONA - La sua grande amica Angela dice che è una ‘wonder woman’, una super donna. «Non è vero. Come ha scritto un economista della Banca d’Inghilterra, nel mondo ci sono oltre 862 milioni di volontari. Se formassero una nazione, questa avrebbe una popolazione seconda solo a quella della Cina. Io sono la 862 milionesima parte di quell’insieme». Una parte di quel tutto di generosità Paola Cinquetti, classe 1952, lo è da vent’anni esatti, dal 2005, quando ha iniziato a collaborare con Abio, la benemerita associazione che si occupa dei bambini e dei ragazzi ricoverati in ospedale.

«Nella mia famiglia c’è sempre stata una vocazione, chiamiamola così, ad aiutare», racconta l’impiegata in pensione e laureata in Lingue, che conosce alla perfezione l’inglese e il tedesco oltre a cavarsela con lo spagnolo e il portoghese. «Mio padre, Mario, elettricista, teneva la porta di casa aperta e la luce accesa nel caso ci fosse qualcuno che avesse bisogno. Un giorno mio figlio Luca, quand’era in quarta o quinta elementare, è tornato da scuola dicendo che la maestra aveva spiegato in classe l’idea della porta aperta e lui le ha risposto che la applicavamo già».

Paola Cinquetti, seconda da destra, a un gazebo dell'Abio 

Per diventare volontario di Abio si deve seguire un apposito corso di formazione teorico-pratico. «Il mio turno era il sabato pomeriggio, poi mi sono spostata il venerdì e dopo ancora il martedì. Siamo presenti nel reparto di Pediatria del Maggiore e presso gli ambulatori di Neuropsichiatria infantile di via Santa Maria in Betlem». Lei preferisce l’impegno in ospedale. «Arrivo, salgo al quarto piano dove c’è il nostro locale e come prima cosa leggo l’agenda completata alla fine del turno precedente. Quindi preparo il kit d’accoglienza per ogni singolo bambino che solitamente comprende un gioco, un paio di ciabatte e materiale, molto utile per ricoveri d’urgenza, per l’igiene personale».

Poi scende al pianoterra ed entra in reparto. «Chiediamo alle infermiere di segnalarci eventuali casi particolari, ad esempio pazienti affetti da malattie con il rischio di contagio. Quindi percorro il corridoio e mi fermo in ogni stanza (in tutto i posti letto sono 25), chiedendo il nome e l’età del bambino, che dev’essere accompagnato dalla madre o da un tutor (i degenti in Pediatria vanno da 0 a 18 anni). Per loro un secondo letto o la poltrona. Nelle stanze c’è la tv, il cui abbonamento è pagato dall’associazione. Poi spieghiamo chi siamo e che la sala giochi è aperta. Chi vuole può usufruirne, chi non vuole no, senza nessuna forzatura.

A fine turno riordiniamo i giocattoli e li igienizziamo, lo si faceva anche prima del Covid, ma dopo con maggiore precisione. Per noi, quando è malato il bambino, lo è tutta la famiglia; per noi se il bambino si trova in un ambiente simile a quello di casa, la guarigione è più veloce. Abio è nata per supportare il bambino con il gioco e, grazie alla nostra presenza, anche la madre che ha bisogno di andarsi a prendere un caffè, sgranchirsi le gambe, farsi una doccia. In quei momenti ci affida temporaneamente il figlio». I giocattoli sono nuovi. «Vengono comprati grazie alle donazioni. Da qualche tempo Cremona si sta dimostrando premurosa, non solo a Natale ma in ogni periodo dell'anno».

Quanti sorrisi, quante carezze, Paola, e gli altri suoi colleghi, ha donato senza chiedere nulla in cambio. Quanti volti porta nel cuore. «Quando ho cominciato, c’era Mirko, un dodicenne malato terminale. A me piace leggere le fiabe e lui, quando arrivavo, voleva che gli leggessi quelle di Winnie the Pooh, che adorava, perché davo un’intonazione alle voci dei vari protagonisti». Se Mirko era italiano, un altro bambino di pochi mesi proveniva invece dall’Egitto.

Cinquetti e le volontarie con il personale dell’ospedale

«Aveva una forma di malattia invalidante, passava da un ricovero lunghissimo a un altro. Quando mi avvicinavo al suo letto, i genitori potevano assentarsi per recarsi al call center e chiamare il figlio maggiore rimasto in patria. Allora prendevo in braccio il fratellino, che percepiva il calore del mio corpo, e, anche se sono stonata ma lui non lo sapeva, gli cantavo delle canzoncine. Un giorno la mamma, una donna bellissima che vestiva stupendi abiti colorati, mi ha chiesto: ‘Qual è il suo nome? Così un giorno, quando crescerà, dirò a mio figlio chi lo ha coccolato’. Non potrò mai dimenticare le sue parole». Con l’immigrazione la missione della onlus è rimasta la stessa.

«Magari con le mamme di origine indiana è più difficile comunicare perché molte di loro non parlano inglese. E così da qualche anno abbiamo fotocopiato fogli scritti nelle lingue più diverse, dal pangiabi all’hindi, dall’arabo al rumeno per comunicare chi siamo e cosa facciamo. Le mamme, italiane o straniere, si fidano di noi». A parte cause di forza maggiore, come la recente frattura al polso sinistro o quella dell’omero di due anni fa, la volontaria cremonese ha quasi sempre timbrato il cartellino.

«Quelle tre ore alla settimana non mi pesano, giocano i bambini, ma gioco anch’io. Questi 20 anni in Abio sono stati molto gratificanti nonostante tutte le difficoltà: cambia la società, cambiano le persone e, quindi, dobbiamo cambiare anche noi. Vent’anni non sono pochi, ma io sono ancora qua e, sino a quando avrò qualcosa da dare, non ho intenzione di restare a casa. Lo faccio per rendermi utile ma nello stesso tempo è un’esperienza che arricchisce tanto. Come quando incontri in strada una donna con il suo bambino e ti saluta: signora, non si ricorda di me? Significa che qualcosa hai lasciato. Lo dimostrano anche i pensieri affidati, soprattutto dagli adolescenti, a un album in reparto. Tra qualche mese diventerò nonna e dovrò imparare a conciliare il volontariato con questo nuovo ruolo». L’associazione, che in provincia è presieduta da Marina Gerevini, ha bisogno di forze fresche. «Dopo il Covid molte di noi se ne sono andate ma con le 9 tirocinanti in arrivo, saremo una trentina. Un buon numero, ma sempre poche, l’ideale sarebbe essere tre per turno».

Cinquetti è una delle colonne anche di Intercultura, l’organizzazione internazionale nata in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma le cui origini risalgono addirittura al 1915 in Francia. Cinquemila volontari nel nostro Paese, 200mila sparsi a tutte le latitudini. «L’idea di fondo è organizzare scambi tra studenti in una prospettiva di costruzione della pace. Se una cultura la conosci, non le fai la guerra».

Ogni anno sono 7mila gli adolescenti italiani che presentano domanda per mettersi in viaggio, 2mila quelli che partono e raggiungono una delle 65 nazioni coinvolte in questo progetto. «Purtroppo da questo punto di vista Cremona è una città chiusa. Portarsi in casa uno di questi ragazzi è portarsi in casa il mondo, una cosa bellissima che ti fa crescere. Nel 2007 ho ospitato un giovane tedesco e, nel 2010, una finlandese, Pipsa, con la quale sono ancora in contatto». Perché quest’altro impegno? La risposta è la stessa che spiega il tempo regalato ai bambini ricoverati ed è scolpita in «quella porta che mio padre mi ha insegnato a tenere sempre aperta».

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