L'ANALISI
15 Luglio 2025 - 20:32
CREMONA - Un excursus sull’economia italiana degli ultimi trent’anni, un focus sul debito pubblico, un’unghiata su alcuni dei temi oggi più dibattuti dell’economia mondiale. Due ore e mezza di ‘lezione’. In cattedra Carlo Cottarelli, ‘sui banchi’ i consulenti della compagnia di Assicurazioni Generali Italia, sedi di Cremona e Codogno, per uno dei numerosi workshop formativi che il responsabile, Francesco Cozzoli, promuove a favore del suo team (una cinquantina di collaboratori tra dipendenti e agenti commerciali) e di conseguenza alla propria clientela.
«Grazie al programma formativo rivolto si nostri agenti già da qualche anno, cinque di loro hanno ottenuto la certificazione European Financial Planning Association, figure professionali competenti e costantemente aggiornate, in grado di supportare i risparmiatori nelle scelte di impiego e pianificazione».
L’intervento del professor Cottarelli — economista, ex senatore, editorialista e politico, un lavoro in Banca d’Italia ed Eni, per anni nello staff del Fondo monetario internazionale, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica e docente alla Bocconi — è partito dall’analisi delle dinamiche che hanno coinvolto l’economia italiana dell’ultimo trentennio e dei grandi cambiamenti che lo hanno caratterizzato: la pressione sulla spesa corrente, l’inverno demografico, l’invecchiamento della popolazione per finire col macigno del debito pubblico.
Cottarelli ha iniziato da una sorta di ‘riassunto’ dello stato di salute dell’economia italiana. «Fino al 1990 crescevamo come il resto d’Europa, poi la linea si è appiattita ha cominciato a scendere. Altri Paesi hanno adottato strategie per sostenere sia la crescita economica che la natalità: scelte che l’Italia non ha fatto. Così il 2000 segna da noi l’inizio della crescita zero nell’incremento del reddito. Risultato? Per la prima volta nella storia i figli sono meno ricchi dei genitori, e questo distacco dall’Europa continua ad aumentare. La buona notizia è che non siamo in crisi come dieci-quindici anni fa. Stiamo crescendo, sia pure lentamente, non tanto rispetto alla media europea che è tenuta al ribasso dalla Germania, ma rispetto ai Paesi del Sud Europa come Spagna, Portogallo, Grecia. La brutta notizia è che non siamo più i fanalini di coda non perché abbiamo accelerato, ma perché altri hanno rallentato», attacca il professore.
E sulle soluzioni più o meno urgenti ha suggerito un confronto «ad esempio con la Spagna dove c’è una pressione fiscale più bassa — 37% contro il nostro quasi 43% —, una burocrazia meno pesante e più rapida, l’ostacolo principale per le nostre imprese; un sistema giustizia che ne contrasta mali e lentezza, senza contare la liberalizzazione, gli scambi e gli incentivi ad aprire nuove attività. Noi abbiamo fatto qualche progresso, potremmo andare molto meglio. Ancora in Spagna il costo dell’energia è più basso, il flusso degli immigrati è regolarizzato e le imprese soffrono molto meno il problema del reperimento di forza lavoro. I problemi strutturali che ci affliggono da sempre non sono mai stati risolti. E per la verità neanche affrontati. Se ci rimboccassimo le maniche, qualche risultato a casa lo porteremmo».
I dazi imposti dagli Usa ai prodotti europei sono un colpo durissimo che mette a rischio l’export. «Se gli Usa confermeranno i dazi al 30% dal primo agosto, avremo un calo del Pil di mezzo punto e un calo del 20% delle esportazioni. L’Italia è tra le economie più esposte in Europa. Bisogna vedere cosa succederà nelle prossime due settimane. Noi abbiamo fatto i due passi che Trump ci ha chiesto: l’esclusione delle multinazionali americane dall’imposta minima del 15%, l’aumento della spesa militare. Nonostante questo, l’aliquota al 20% che ci è stata proposta all’inizio di aprile non va più bene, ora manda una lettera e la aumenta a 30%. Non capisco cosa abbia in mente. Resto fiducioso, sia pure con tanti dubbi, sul fatto che alla fine si arrivi ad un accordo equo. Gli americani non potranno sostituire ai nostri prodotti le loro produzioni locali quindi continueranno a importare pagando di più. Se saremo in grado di diversificare, esporteremo meno negli Usa e cercheremo altri sbocchi su altri mercati. Una conseguenza da non sottovalutare — aggiunge Cottarelli - è che i dazi aggraverebbero le molte incertezze di un periodo già difficile. Se si smette di investire, le famiglie non comprano, il dollaro si svaluta oltre il 2-3% già perso sull’euro, rendendo all’Unione europea ancora più costoso esportare».
Se invece di considerare la produzione globale europea si entra nel dettaglio dei settori coinvolti, per alcuni Paesi può essere una brutta botta. «Trump non si rivolge ai singoli Stati ma all’Unione europea e in Europa non c’è nessuno che abbia il potere di Washington nel firmare un decreto legge o un executive order. È stata costruita così. E, a dirla tutta, noi ci sentiamo ancora più cittadini dei singoli Paesi piuttosto che cittadini europei. Come finirà non lo so. I dazi sono anche degli strumenti negoziali: se ci si mette al tavolo entrambe le parti peseranno pro e contro: lo scontro sarà durissimo». Cottarelli si concede un suggerimento alla politica. «Che si faccia coraggio: crescere dello zerovirgola è come restare fermi».
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