L'ANALISI
02 Giugno 2025 - 20:06
CREMONA - Il sindaco si è chiuso in casa, ieri sera: lui, la moglie Elena al fianco e in mezzo, steso sul divano, Giorgio, uno dei quattro gatti di casa vestito di grigiorosso. C’era di sicuro la bandiera sul balcone e deve esserci stata anche la birretta sul tavolino, vicina al pacchetto di sigarette pronto in caso di necessità: ne ha fumate, gli ultimi cinque minuti. Ha sofferto lì, davanti alla tv, Andrea Virgilio. Come si faceva una volta. E del resto, lui è uno di quelli che ha iniziato ad andare allo Zini negli anni d’oro: Frutti, Mondonico, Favalli e Luzzara, il magico Alviero, il gol di Rampulla e il poster di Vialli appiccicato sulla parete bianca di fronte al letto. Il senso profondo di un’epoca gloriosa.
«Che porto nel cuore e che sembrava irripetibile. E che invece la nostra Cremonese ha saputo replicare in un calcio sempre più snaturato, dove contano soltanto bilanci, procuratori e diritti televisivi. Ha avuto la capacità di resistere, ha conservato la sua identità, ha saputo restare società prima ancora che squadra. Ed è questo, a mio avviso, il suo vero trionfo».
Lo dimostrano le due promozioni recenti.
Ma è altro, quel che conta di più: «È l’aver mantenuto intatto il legame con i tifosi e l’aver dato voce a una città intera anche nei momenti più difficili — inquadra il valore superiore, il primo cittadino —. E questo non è scontato, anzi. È il segno di un progetto serio, di una visione che guarda oltre il campo. E per tutto questo, sento il dovere di dire grazie».
Da sindaco e da tifoso. Forse prima da tifoso e poi da sindaco: «Ringrazio chi ci ha creduto, chi ha lottato, chi ha tifato sempre. Chi ha portato la nostra maglia con dignità e chi l’ha amata anche quando pesava come un macigno».
Che quella maglia lì, significa molto più di una partita: «Significa comunità, amicizia, senso di appartenenza — ne definisce la rappresentanza più profonda, Virgilio —. Significa trasferte infinite, cori che restano in testa, abbracci sinceri. E un legame profondo, antico, che ha saputo attraversare decenni e che oggi più che mai ha bisogno di essere rafforzato. Perché tifare Cremonese significa soffrire. Chi conosce i colori grigiorossi lo sa bene: è un amore che ti prende il cuore e spesso lo stritola, ma che alla fine ti fa sentire vivo come poche altre cose al mondo. Lo abbiamo fatto anche domenica, nei minuti finali di una partita che sembrava non finire mai. Lo facciamo ogni stagione, lo facciamo da una vita. Eppure, in tutta questa sofferenza c’è qualcosa di profondamente bello».
Le emozioni vere che la Cremo ti regala: «E che non si comprano. E nemmeno si fabbricano a tavolino. Emozioni che uniscono una città, che fanno discutere, sognare, a volte arrabbiare, ma mai smettere di credere. E i cremonesi, con la loro passione composta e la loro fedeltà senza clamori, hanno sempre saputo distinguere ciò che davvero conta».
Non il risultato, la maglia.
«E la società lo ha capito. A partire dal cavalier Giovanni Arvedi e dalla dirigenza, che hanno dimostrato ancora una volta cosa significa credere davvero in un progetto sportivo e umano. Il suo sostegno non è mai stato solo economico: è stata una forma di rispetto verso una squadra e una città che meritano passione vera».
E allora, ‘Che bello è’...
«Sì, il bello di una fedeltà incrollabile a una maglia che non si tradisce».
Mai. Figurarsi questa volta.
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