L'ANALISI
20 Maggio 2025 - 17:03
Emilio Guida (Sap), il maggiore Gabriele Schiaffini, Gianluca Epicoco (Digos), la preside Simona Piperno e il pm Antonio Laronga. A fianco, i ragazzi del Torriani
CREMONA - È una delle baie più suggestive del Gargano, in Puglia: baia San Felice. Un piccolo paradiso tra le scogliere a picco e il mare cristallino, di giorno. Di notte, «in quella baia sbarcavano tonnellate di marijuana dall’Albania, primo produttore mondiale, e spesso arrivava, via Balcani, anche l’eroina prodotta in Afghanistan. Per fare questo, gli albanesi hanno bisogno di alleati sul territorio: i clan garganici. Questo preoccupa molto, perché la droga va in tutta Italia. Se qualcuno qui si fa le canne, sappia che finanzia la mafia. Il problema riguarda tutte le regioni».
In magistratura dal 1993, Antonio Laronga, procuratore aggiunto antimafia di Foggia, la sua città, 59 anni, da oltre 20 sotto scorta, cattura l’attenzione degli studenti dell’Itis Torriani, raccontando l’ascesa della ‘quarta mafia’: espansione e trasformazione (dal titolo del suo saggio). È il primo dei tre incontri nell’agenda della ‘Settimana della legalità’ della scuola. Lo ha organizzato Emilio Guida, vice segretario regionale del sindacato di polizia Sap.
Dieci di oggi, aula magna. Gianluca Epicoco, dirigente della Digos, presenta Laronga: sono amici dai tempi dell’Università a Parma, facoltà di Giurisprudenza. Il pm premette: «A Cremona non ci sono associazioni mafiose autoctone, ma ciò non significa che il problema delle mafie non ci sia. È un problema nazionale, anzi, internazionale. Le mafie allungano i loro tentacoli dove ci sono i soldi e il Nord è ricco. Imponente è l’opera di colonizzazione del Nord Italia».
La mafia di oggi non uccide, non mette bombe: indossa giacca e cravatta, si infiltra e si mimetizza nel tessuto socioeconomico. È la borghesia mafiosa: è in forte espansione e preoccupa. Perché «le mafie hanno deciso di infiltrare l’economia pulita distante dal loro territorio di origine». Perché «hanno una capacità di fare rete con altre organizzazioni criminali, soprattutto con la ‘ndrangheta, la più potente, e con quelle straniere». Perché «spaventano sul piano della sicurezza pubblica. Caveau di banche e assalti ai portavalori: quando in tv vedete quelle azioni quasi militari (non meno di 15 persone), spesso dietro c’è la criminalità di Cerignola. Non si muovono per colpi sotto i 10 milioni di euro».
Il pm spiega che «oggi le mafie agiscono in modo silente, sotto traccia». Parla di «metodo collusivo». «Hanno capito che per fare soldi è meglio non apparire: se metti le bombe per intimidire gli imprenditori, te li fai nemici. Meglio offrire agli imprenditori dei servizi». Lo slogan oggi è ‘Meno violenza, più economia’. «Sono mafie degli affari. Si infiltrano nell’economia pulita, perché hanno bisogno di riciclare i soldi e nasconderli è la prima esigenza. Li investi, comprando un bar, un ristorante, un B&B, una palestra, ci fai altri soldi attraverso attività imprenditoriali lecite e da farabutto diventi imprenditore. Oggi i mafiosi pensano al riciclaggio e per entrare in questo mondo c’è bisogno di competenza, di portare dalla tua parte commercialisti, avvocati, ingegneri, imprenditori, persone estranee alla mafia».
Parla di «legami tra il mondo criminale e imprenditoriale, ma anche con la politica e, se vogliamo dirla tutta, con qualche magistrato e con qualche appartenente alle Forze dell’ordine». Oggi le mafie «offrono servizi illeciti come la droga e servizi apparentemente leciti richiesti dagli imprenditori». È «l’esternalizzazione dei servizi - pulizie, facchinaggio, logistica - offerti a prezzi stracciati. L’imprenditore li prende al volo. Queste società con prestanome non pagano niente a Fisco, Inail e Inps». Il magistrato le chiama ‘società apri e chiudi’, «perché dopo un paio di anni falliscono per insolvenza, Alla fine, ci rimette solo lo Stato. Quanto vale il fenomeno criminale in Italia? Dato Istat: 2% del Pil. Dato Eurispes: il giro d’affari è di 130 miliardi l’anno, una cifra che metterebbe in ordine i conti del nostro Paese».
«Per sconfiggere la mafia, non basta la repressione. Servono politiche sociali e una rivoluzione culturale», afferma Antonio Laronga, il pm che promuove la cultura della legalità, parlando agli studenti nelle scuole. Per faro, la frase: «La mafia teme la scuola più della giustizia». La frase è di Antonio Caponnetto, il magistrato che guidò il pool antimafia dal 1983 insieme a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta e il cui operato portò ai risultati del maxiprocesso del 1986.
«Importante è la partecipazione della società civile - sottolinea il procuratore aggiunto Laronga —. Quando vado nelle scuole del mio territorio, che è un territorio molto distante da questo, è molto complesso, ai ragazzi che sono fantastici, dico sempre che oggi fare l’antimafia sociale o fare antimafia, non significa fare l’eroe, cioè andare, per esempio, a denunciare un reato predatorio. Ovviamente, ben vengano questi comportamenti. Però, chi non ha il coraggio di denunciare, può stare lontano da certi ambienti».
Il pm fa l’esempio di luoghi di aggregazione (salette con videogiochi e biliardo) «dove le persone spesso si scambiano stupefacenti, si fanno le canne. Bisogna stare lontani. Se uno di questi, il figlio di un grosso pregiudicato, si presta a certe cose, stagli lontano. Se ti invita a una festa, non andarci, prendi una scusa, stagli lontano». Laronga racconta il caso di un 19enne, studente dell’ultimo anno, incensurato, papà ferroviere, mamma commessa, «genitori perbene che nulla avevano a che fare con la criminalità organizzata».
Il ragazzo era stato arrestato per estorsione, insieme ad un gruppo criminale che chiedeva il pizzo a un negoziante cinese: per conto dei mandanti, aveva piazzato bombe carta davanti al negozio. «Quando il gip lo ha interrogato, gli ha chiesto: ‘Perché lo hai fatto?’ ‘Per scherzo. mi hanno detto che era uno scherzo’. Una testa di rapa, questo ragazzo. Si è rovinato per tutta la vita, perché poi ha patteggiato per estorsione. Se un domani va a Milano, lo fermano i carabinieri per un controllo, vedono che ha patteggiato per estorsione, lo portano in caserma».
«Questi non hanno la consapevolezza del disvalore di certi comportamenti: per lui era un gioco - ha proseguito -. Siamo qui per ragionare, per capire che certe cose non vanno fatte: non dovete frequentare certi ambienti. Se ci sono salette orribili con video giochi, non ci andate: studiate, fate sport, andate a ballate, ma non andate in questi postacci dove spesso circolano marijuana, cocaina. Bisogna avere la forza di dire no. Spesso gli imprenditori, sbagliando, aderiscono a progetti criminali che sono molto convenienti, ma entri in affari con queste persone e poi è molto difficile uscirne».
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