L'ANALISI
19 Maggio 2025 - 18:38
CERMONA - Accusato di aver stalkerizzato l’ex compagna dalla quale ha avuto un figlio e che dopo 23 anni di convivenza lo ha lasciato, oggi è stato assolto dal gup ‘perché il fatto non costituisce reato’. Perché «si è trattato di una fisiologica conflittualità che avviene quando c’è una separazione o quando finisce una relazione sentimentale, una convivenza dopo 23 anni, come nel nostro caso. È vero che il mio assistito ha avuto un paio di momenti di arrabbiatura, mandando alla signora dei messaggi, ma è fisiologico in una relazione che finisce e nella quale si deve discutere di aspetti patrimoniali e del figlio. Un conto sono le vessazioni volontarie e consapevoli, un altro conto è avere alcuni momenti di rabbia, una reazione umana. Se andiamo avanti di questo passo, l’uomo deve solo subire, non può permettersi di arrabbiarsi, altrimenti arriva la denuncia. Il fatto è che da due anni, il mio cliente non vede suo figlio», ha commentato l’avvocato Simona Bracchi, difensore dell’uomo, 62 anni, pensionato Rai («trasfertista» sino all’1 giugno di un anno fa), casa a Milano.
Nel processo con rito abbreviato, il pm aveva chiesto al gup di condannarlo a 10 mesi, mentre l’ex convivente, professoressa anche lei in pensione, casa nel Cremonese, parte civile con l’avvocato Marilena Gigliotti, di condannarlo a risarcirla con 30mila euro (compresi danni morale e biologico) e a una provvisionale di 5mila euro. Entro 90 giorni sarà depositata la motivazione della sentenza. L’avvocato di parte civile si riserva di leggerla.
Dopo l’assoluzione, il pensionato ha confidato al suo avvocato di sentirsi sollevato, «perché ritenevo infamante un reato così; avevo fatto progetti di non invecchiare da solo e mi sono ritrovato denunciato per un reato gravissimo. Più di lavorare, dare benessere, ho investito in una casa, ho cercato di non far mancare nulla alla mia ex compagna e a nostro figlio. Ho lavorato moltissimo, tante ore di straordinario, le sono stato fedele, ho cercato di essere un padre presente e, alla fine, mi sono trovato buttato via come uno straccio». Dopo ventitré anni di convivenza e una querela presentata contro di lui nel mese di dicembre.
«Violenze fisiche no, psicologiche sì. Mi accusava di avere altre relazioni sentimentali: falso. Le offese, pesantissime, spesso fanno più male di uno schiaffo», aveva raccontato l’ex convivente, denunciando una serie di episodi.
«Abbiamo dimostrato che il mio cliente, persona riservata, di poche parole, tranquilla, di punto in bianco non si è messo a fare lo 007, non ha pedinato l’ex convivente. Dopo la pensione di entrambi, la sua intenzione era di sposarsi, di stabilizzare la loro vita e di restare più vicino al figlio, visto che per lavoro era spesso in giro per l’Italia e all’estero. La sua intenzione era: ‘Andiamo in pensione, ci godiamo la vita, io coltivo l’orto. La signora, invece, lo ha lasciato e lui certamente si è arrabbiato. Ci sta che abbia strappato una grande fotografia di loro due insieme. ‘Tu tiene la metà con te, io l’altra metà con me’», prosegue il difensore.
Agli atti del processo c’era, tra gli altri, un messaggio WhatsApp, nel quale il 62enne informava l’ ex di avere installato dietro un quadro in camera da letto una micro telecamera. «Lo ha scritto in un momento di rabbia, ma la telecamerina non c’era, non è stata trovata. Desiderava una vita tranquilla, dopo la pensione. Dopo 23 anni, invece, si è visto crollare tutto. Che si sia arrabbiato è comprensibile, è umano».
La ex convivente aveva denunciato di vivere in uno stato d’ansia. «Nell’articolo 612 bis (atti persecutori) — ha sottolineato nell’arringa l’avvocato Bracchi — si parla di stato d’ansia, ma anche la giurisprudenza adesso muove dei dubbi sulla condotta. Lo stato d’ansia previsto dalla norma dev’essere un quid pluris (un qualcosa di più). Mi spiego: la signora ha parlato di un timore generico, di un fastidio generico. Certo, quando finisce una relazione e si devono chiarire aspetti patrimoniali o relativi al figlio, è chiaro che c’è sempre uno stato d’ansia o di timore e di arrabbiatura. Ma non è lo stato d’ansia richiesto dalla norma». Per il difensore, «in questa vicenda ci voleva chiarezza e chiarezza c’è stata, ma il risultato di tutto questo è che da due anni il mio assistito non vede più suo figlio».
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