L'ANALISI
19 Maggio 2025 - 05:25
Enzo Tarquinio fotografato mentre dipinge un ritratto
CREMONA - Sottovalutato in patria, celebrato lontano. Ma, come accade spesso ai veri talenti, anche per Enzo Tarquinio, il pittore cremonese incarcerato da soldato in un campo americano, tornato a casa e deceduto il 20 ottobre 1985, il tempo è galantuomo. La riproduzione di uno dei suoi grandi e coloratissimi murales, dipinti durante il periodo di detenzione e ora custoditi in un museo oltre oceano, spicca nella mostra inaugurata il primo maggio scorso a New York. Titolo: ‘Creatività e prigionieri italiani della Seconda Guerra Mondiale’.
«Non riesco a crederci. Se lo meritava e spero che la notizia lo raggiunga lassù in cielo», trattiene a stento le lacrime la figlia, Giovanna Tarquinio, insegnante di Storia dell’arte e Disegno.
«È un bellissimo riconoscimento della sua bravura», le fa eco il fratello di Enzo, Sergio, artista anch’egli ma più noto di lui. All’inizio del conflitto Enzo fu mandato sul fronte russo: ferito, per poco non venne ucciso. Rientrato in Italia per ristabilirsi, partì per la Sicilia, dove con altri componenti del suo battaglione, il 10 luglio 1943 fu catturato dagli Alleati, deportato in Marocco e da lì trasferito in America, nel campo di detenzione di Douglas, nel Wyoming.
Un colonnello che conosceva le sue capacità gli chiese di fare qualcosa per il Club degli ufficiali e lui creò alcuni murales che si sono salvati. Uno dei quattro specificatamente firmati, raffigurante un ranch con i cavalli dentro e fuori gli steccati, è esposto, attraverso una fotografia, a Manhattan, sino al 2 settembre, al John D. Calandra Italian American Institute. Fondato nel 1979 e ricostituito nel 1995, l’istituto è stato il primo del suo genere dedicato alla documentazione e alla conservazione della cultura della numerosa comunità italo-americana.
La rassegna, curata da Laura E. Ruberto, docente ordinario presso il Berkeley City College, e Joseph Sciorra, etnografo del Queens College, si basa su una ricerca condotta dalla stessa Ruberto che comprende vecchie istantanee, rari manufatti, testimonianze orali, resoconti scritti, ricordi di famiglia e collezioni private. È stata riunita una selezione di questi oggetti, immagini e documenti che raccontano la storia poco conosciuta dei militari italiani incarcerati negli Usa mettendone in luce l’abilità espressiva.
«La raccolta proposta include una grande foto di uno dei murales realizzati da Enzo Tarquinio mentre era a Camp Douglas», spiega la professoressa Ruberto, che con le sue indagini, «in gran parte grazie al contributo del fratello Sergio», ha potuto scoprire molto di più sulla vita e l’arte di Enzo. «Douglas è un paesino piccolo, abbastanza remoto in uno Stato sconfinati degli Usa, il Wyoming, famoso per le sue montagne e i suoi infiniti spazi naturali, senza abitanti — aggiunge la co-curatrice —. I prigionieri italiani rimasero lì circa nove mesi, ma questi murales ci mostrano che hanno lasciato una parte di loro in quel luogo. È incredibile pensare che, anche se il resto del campo è stato distrutto, queste opere non sono state toccate. Infatti oggi fanno parte di un museo, il Wyoming Pioneer Memorial Museum, e appartengono quindi al patrimonio dello Stato. Organizzare con Joseph Sciorra questo allestimento è stata una buona opportunità per mettere insieme una grande varietà di esempi di arte e costruzioni creative di questo gruppo di italiani lontani da casa e allo stesso tempo riflettere su come l’identità e l’immaginario si sviluppano materialmente durante difficili condizioni di guerra».
È da anni che la studiosa si occupa di questi argomenti. Anche per ragioni affettive: «Mio nonno paterno, Donato Ruberto, originario della provincia di Avellino, è stato prigioniero negli Usa e aveva ideato dei modellini di veicoli militari che ammiravo da piccola». Ritornato in patria, Enzo Tarquinio si è concentrato su lavori di decorazione, restauro e progettazione grafica. Molto apprezzate anche le tele con i paesaggi del Po e le sue nebbie.
«Tutto quello che ho imparato me lo ha insegnato lui. Era tecnicamente superlativo, in particolare nell'utilizzo del colore», ha affermato una volta Sergio, il fratello novantanovenne. Lui ha sfondato, l’altro no. «Ma quello tributato ora è un doppio omaggio: a quegli sfortunati soldati italiani e a un pittore che è stato purtroppo sottostimato. Per fortuna c’è ancora chi si ricorda dei sacrifici di quei giovani e delle capacità di Enzo Tarquinio», commenta Giuseppe Termenini, esperto d’arte.
Giovanna, la figlia di Enzo che da lui ha ereditato l’amore per la pittura, non nasconde la sua emozione: «Quella che arriva da New York è una notizia incredibile, non me l’aspettavo. Come sarebbe bello se mio padre e anche mia madre lo sapessero, lassù in cielo. Andrò con mio marito a visitare la mostra. Papà era pane e arte, mi ha trasmesso tantissimo. Quando non era impegnato con pennelli e colori, divorava i libri sulla vita dei grandi pittori. No, non parlava della guerra e della Russia, dove due contadini del posto lo avevano salvato dal gelo portandolo nella loro izba».
Raccontava, invece, del periodo in America. «Diceva di essere stato trattato molto bene. Era ferito, in ospedale gli hanno fatto trovare pigiama, vestaglia e ciabatte, una cosa mai vista prima. Quando si allestivano opere teatrali, il disegno dei fondali veniva affidato a lui. In una lettera ha scritto di aver realizzato 200 quadri, compresi ritratti degli ufficiali. Non faceva in tempo a finirli che li vendeva e gliene commissionavano altri. Lavorava in continuazione, tanto è vero che gli americani, alla fine della guerra, gli avevano proposto di fermarsi. Se avesse accettato, avrebbe fatto fortuna con le capacità che aveva. Ma il suo cuore era qui».
C’è un’altra persona che gioisce per l’immagine del murales fissata a un pannello dall’altra parte dell’Atlantico: è Sergio Tarquinio, maestro riconosciuto di pittura, incisione, disegno e illustratore. Un nome che non ha bisogno di presentazioni. «Enzo era bloccato dalla sua timidezza. Un povero ragazzo molto bravo ma che che ha sempre vissuto nella mia ombra. Questa raccolta è i riconoscimento che meritavano lui e la sua arte». Ora il fratello è uscito dall’ombra.
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