L'ANALISI
14 Maggio 2025 - 16:08
Il tribunale di Cremona
CREMONA - Sei anni «sulla graticola» per un reato grave: violenza sessuale su una collega 36enne che lo aveva accusato di «averle palpeggiato i glutei e di essersi strusciato con i propri» sul luogo di lavoro, la cucina di un ristorante in città. Ma il cuoco, 54 anni, sposato e padre, la fedina penale pulita, ha sempre negato.
Tre udienze preliminari l’ultima oggi quando il gup ha dichiarato il ‘non luogo a procedere’ «perché non vi erano elementi per portare il mio assistito a giudizio», spiega l’avvocato difensore Vito Alberto Spampinato. Lo stesso pm aveva chiesto il ‘non luogo a procedere’.
Il legale parla di «vendetta», di «atto ritorsivo» della collega nei confronti del cuoco. I due non andavano d’accordo. Storia di rimproveri del tipo: ‘Non pulisci bene le pentole’. «Una denuncia per ripicca — insiste l’avvocato Spampinato —. Il giorno dopo averla presentata, la collega l’ha poi sventolata come una sorta di trofeo. Erano chiari segni di rivendicazione a livello ritorsivo. Non è certo il comportamento di una persona che ha subito atti sessuali. Solitamente, una donna è triste e anche impaurita. Il giorno successivo, non vai nello stesso posto dove c’è quello che ti ha fatto violenza, hai un po’ paura di quella persona».
Il difensore precisa che «già nelle indagini non era emerso nulla. Il fatto è successo il 28 aprile del 2019, nella denuncia, però, la parte offesa fa riferimento a due mesi prima, salvo poi parlare di agosto. Nella denuncia ha parlato di palpeggiamenti, sentita a sit si è corretta: sfioramenti».
Alla seconda udienza preliminare, «il mio assistito è stato interrogato, rendendo una versione del tutto coerente, attendibile e veritiera. Alla luce di questo interrogatorio, il gup ha disposto che venissero espletate ulteriori attività di indagine al fine di chiarire alcune elementi dubbiosi che avevamo sollevato già nelle indagini difensive ed anche in udienza preliminare. È stato sentito un teste oculare, il quale ha detto che in cucina non ha mai visto nulla e che non aveva nemmeno contezza dei dissidi tra i due. Dissidi in forma riservata: non erano cose eclatanti, non volavano pentole. Ed è stata sentita, di nuovo, la parte offesa, che non si ricordava niente, riportandosi al contenuto della denuncia-querela. Alla fine, è emerso che le dichiarazioni della parte offesa erano del tutto inattendibili. Il punto è che la signora era l’unica fonte di prova».
Soprattutto, per il legale, «il punto è il filtro della Procura della Repubblica che manca. Quando ti arriva una denuncia del genere, quando in mano hanno solo la denuncia della parte offesa, è lì che devi fare i preliminari accertamenti, devi verificare se la signora sta dicendo il vero o il falso e non mandare a giudizio in automatico, ingenerando, tra l’altro, dei costi allo Stato, a parte i costi del cliente. Ci sono tantissimi casi dove serve una pena severa contro chi commette reati di violenza sulle persone. Ma se tu non fai un filtro e chiedi il rinvio a giudizio nonostante nelle indagini difensive avessimo sostenuto le stesse cose, perché si deve arrivare all’udienza preliminare? Il mio assistito mi ha raccontato che a volte, durante alcune giornate, magari era felice per qualche cosa, poi, tutto d’un tratto, tornava al pensiero del processo e si deprimeva, si metteva a piangere, perché le accuse, gravi, erano false».
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