L'ANALISI
13 Febbraio 2025 - 21:10
CREMONA - «Abbiamo un debito di riconoscenza con tutti loro, con questi uomini che per troppo tempo la Storia ha dimenticato». La cerimonia di consegna delle medaglie alla memoria ai parenti di nove militari cremonesi internati nei campi di sterminio nazista si è svolta ieri nell’atmosfera solenne delle sale della Prefettura. Una folta platea di cittadini, amministratori, rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine ha risposto alla chiamata del prefetto, Antonio Giannelli per celebrare insieme il ricordo di uno dei capitoli più bui della storia italiana ed europea: la deportazione nei lager nazisti dei militari dell’esercito italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Prima della consegna delle onorificenze la serata è stata impreziosita da un’interessante intervento della professoressa Giulia Caccamo, docente di Storia delle relazioni internazionali all’università di Trieste, che ha approfondito il fenomeno sociale e storico degli Imi (internati politici militari): «Più di 600mila uomini che, tra il ‘43 e il ‘45, furono catturati e costretti al lavoro coatto nelle industrie pesanti tedesche, sull’altare di una macchina della guerra che non poteva fermarsi».
E invece il senso di combattere era venuto totalmente meno tra i militari italiani, soprattutto dopo «l’umiliazione dell’8 settembre. Deporre le armi rappresentava un’onta ma anche un momento di svolta: per quanto le autorità italiane, a partire da Badoglio, furono ambigue sulle conseguenze dell’armistizio al popolo italiano, esercito compreso, fu chiaro il mutamento dei rapporti con gli alleati, fattisi nemici, tedeschi».
La situazione, a complicare il quadro già difficile di un esercito nazionale lasciato dall’oggi al domani senza ordini, era in «rapidissima evoluzione: dopo la creazione della Repubblica sociale italiana (Rsi) Mussolini fece il tentativo di reinquadrare gli uomini in una nuova forza armata fascista. Il tentativo naufragò per le pochissime adesioni di un popolo estenuato dalla guerra, desideroso solo di pace. I piani del Duce si scontrarono anche con la necessità della Germania nazista di manodopera per sostenere la propria economia mentre i tedeschi si trovavano al fronte».
Furono centinaia di migliaia gli internati, «una massa di uomini che, alla fine della Guerra, tornò a casa con trasporti di fortuna e viaggi avventurosi, per assaporare finalmente quella pace che gli era stata promessa due anni prima». Uomini che, con la loro scelta di non arruolarsi nell’Rsi fecero la scelta giusta, «facendo propri i principi alla base della nostra democrazia – ha detto il prefetto –. Quella stessa democrazia che oggi, troppo spesso, diamo per scontata».
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