L'ANALISI
02 Dicembre 2024 - 05:15
L'infettivologa Claudia Balotta
CREMONA - Il medico al box numero 3 del polo sanitario ascolta pazientemente la coppia. Poi dice all’infermiera che si può procedere con le vaccinazioni. L’attenzione dei due coniugi viene attirata dalla firma sui moduli ricevuti: è quella di Claudia Balotta, l’infettivologa cremonese distintasi nella lotta al Covid perché isolò il ceppo italiano. Anche quest’anno è ritornata al centro di via Dante, rivolto stavolta non solo ad anziani e fragili ma alle varie fasce d’età.
«Esperienze come questa sono per me un bagno di realtà fatto di persone, volti e storie».
Una, più unica che rara, l’ha particolarmente commossa: quella della donna nata in un lager tedesco e scampata alla diga del Vajont. «Vorrei rivederla».
Ricercatrice al Sacco, docente alla Statale di Milano, un lunghissimo curriculum ricco di riconoscimenti e pubblicazioni scientifiche, la professoressa ha trascorso la vita in laboratorio. «Ma ho sempre desiderato stare in mezzo alla gente». Sin dai tempi dell’Aselli: «All’oratorio di San Michele davo ripetizioni ai bambini delle elementari. All’universitàCasa dello studente, c’era una scritta enorme: ‘Indifferente mai’. Ho portato con me quelle parole».
Ha identificato il Coronavirus coordinando una giovane squadra di studiosi, il 20 febbraio 2020. Due settimane dopo, il primo marzo, è andata in pensione. «Ho pensato che sarei stata utile anche lavorando da casa».
È stata consulente del Pio Albergo Trivulzio per tre anni, sino al commissariamento dell’istituto milanese, al centro di un’inchiesta per il supposto alto numero di decessi tra gli ultraottantenni e gli ultranovantenni durante la pandemia.
Nel 2021 la sua prima volta all’hub: «Allora è stato importante convincere che il vaccino era sicuro ed efficace, come i numeri hanno dimostrato. Oggi per me entrare in contatto con chi è avanti con l’età rappresenta sempre qualcosa di toccante. Anche se qui abbiamo poco tempo per farlo, mi piace ascoltare».
Gli incontri di questi giorni le hanno fatto ricordare quello che ha avuto, in questo stesso luogo, l’anno scorso: «Una settimana prima di Natale è venuta una signora, non so se ebrea. Abbiamo cominciato a parlare. Ha detto di essere nata nel 1943 in Germania: aveva quindi 80 anni. ‘Una bella idea venire alla luce in quel periodo’, ha commentato la mia assistente infermiera. L’altra le ha risposto che era stata concepita in un campo di concentramento, dove l’avevano deportata con la famiglia. Il comandante del lager aveva richiesto la mamma per allattare il figlio perché la moglie non era in grado di farlo. Così la donna italiana si era trasferita con la piccola nell’abitazione accanto alle baracche. Sono state liberate all’arrivo dei russi. La madre era poi tornata con la bambina nel suo paese d’origine, vicino a Belluno».
La bimba diventa una giovane di 20 anni: «Era commessa in un negozio di scarpe in città. Una sera ha fatto tardi al lavoro e ha perso il pullman». Era il 9 ottobre 1963, la notte del Vajont.
«Tutti i suoi cari sono stati spazzati via dall’onda provocata dalla valanga, solamente lei è sopravvissuta. Grazie a quella corriera. Si è poi sposata e trasferita a Cremona con il marito, forse un volontario accorso per aiutare».
Colpita da questa vicenda, e «pentita di non aver chiesto il contatto, il nome della sua protagonista», l’infettivologa lancia ora un appello: «Spero di incontrarla di nuovo».
Anche questo terzo impegno in via Dante, dove riceve in media una cinquantina di pazienti al giorno, le sta regalando sorprese. «Qualche mattina fa si è presentata una mamma con i suoi quattro bambini e ho pensato: ‘Guarda un po’, ci sono ancora madri coraggiose che fanno dei figli. Era italiana, ho poi scoperto che siamo lontane parenti».
Balotta ha negli occhi un’altra immagine: «L’altro giorno è venuta una coppia di coniugi cinquantenni con la loro ragazza gravemente disabile: era su una sedia a rotelle, non parlava ma emetteva solo suoni. Si sono vaccinati per proteggere la figlia anche se il padre opponeva qualche resistenza». Quei dubbi, anche se poi superati, l’hanno fatta riflettere: «Per qualcuno, immunizzarsi contro il Covid continua a rappresentare un mezzo tabù. Ma oggi, con tutti i dati disponibili sulla sicurezza dei vaccini, non abbiamo più ragione di essere diffidenti. Si deve sapere che il Coronavirus sta provocando centinaia di morti non solo tra gli over 65, ma anche tra i fragili. Come tante sono a ogni inverno le vittime dell’influenza. Grazie soprattutto ai vaccini, il Coronavirus non ha più le caratteristiche degli inizi della pandemia, ma può continuare a fare male».
Prima o poi il polo smobiliterà.
«Cosa mi attende dopo? Non lo so. Non sopporto non fare niente. Vedremo. Con altri colleghi sto dando una mano al Gruppo Articolo 22, ognuno di noi presta servizio una volta al mese presso l’ambulatorio per immigrati».
Per il suo contributo nella lotta al Covid, Mattarella l’ha nominata cavaliere al merito: «Quando gli amici mi chiedono che cosa il presidente mi ha detto in quei cinque minuti a tu per tu, strappo loro una risata con questa risposta: parlava a bassa voce, aveva la mascherina, e comunque sono certa che non mi ha chiesto di sposarlo. A proposito, lo ripeto: non mi sento in alcun modo un eroe».
Oltre la tenda si leva un vociare: arrivano le infermiere. La dottoressa indossa il camice bianco, il suo turno sta per iniziare. Altri incontri al box numero 3. E magari, chissà, la bambina del lager, la ragazza del Vajont, tornerà.
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