L'ANALISI
11 Ottobre 2024 - 20:06
Il tribunale di Cremona
CREMONA - Cinque anni e 8 mesi: li ha chiesti il pm, Chiara Treballi, per il medico del lavoro, 64 anni, libanese di nascita, casa a Bergamo dove dal 13 marzo scorso è ai domiciliari, a processo (in abbreviato) davanti al gup per violenza sessuale (palpeggiamenti) su cinque dipendenti di una cooperativa di pulizie durante le visite in un ambulatorio a Crema, a gennaio di quest’anno.
Due lavoratrici risiedono nel Milanese, due nel Cremonese, una a Cremona. La più giovane ha 34 anni, la più grande 56. In mezzo, le colleghe di 54, 52 e 49 anni. Cinque presunte vittime delle violenze sessuali per l’accusa avvenute nel piccolo ambulatorio dove il medico per la prima volta le aveva viste e visitate. Cinque casi fotocopia, secondo il pm.
All’imputato si contesta di aver appoggiato i genitali sulle mani delle pazienti durante la misurazione della pressione. Di aver allungato le sue mani sul fondo schiena, sulle cosce in un caso, sul seno in un altro. «Io sono un medico, non palpeggio, visito», si era difeso all’udienza scorsa il dottore, laurea all’università di Genova, medico dal 1997, specializzato in medicina del lavoro dal 2021, 27 anni di carriera senza macchia.
Oggi, nel giorno delle conclusioni, l’avvocato Sergio Stravino, difensore dell’imputato insieme al collega Emiliano Rossi, ha parlato di «complotto». E ha definito «grottesche» le dichiarazioni delle lavoratrici, sollevando un’alzata di scudi da parte degli avvocati di parte civile Simona Bracchi, Luisa Maria Sangiovanni e Angela Ceriani. Perché «è il solito, triste, tentativo di colpevolizzare le vittime. Le vittime devono giustificare di aver mal interpretato, di aver abbassato gli slip, mentre con il precedente medico non lo avevano mai fatto. Il medico ha addirittura detto che si erano vestite troppo. Inaccettabile». E ancora: «Quale complotto? Le lavoratrici non si conoscevano tra di loro, che interesse avevano ad accusarlo? Tutte hanno riferito lo stesso modus operandi del medico».
Secondo la difesa, in quel piccolo ambulatorio il camice bianco «non ha mai avuto il proposito di porre in essere condotte ‘sessualizzanti’ né, tantomeno, di indurre le lavoratrici al compimento di atti sessuali».
Gli avvocati del camice bianco hanno parlato di «impianto accusatorio discutibile», di «assenza di dolo, anzi: al manifestarsi di un minimo cenno di disappunto, il medico interrompeva immediatamente la propria condotta, seppur fondata su fondamenti scientifici e deontologici».
«Non è affatto vero», hanno contrattaccato gli avvocati di parte civile. «Intanto, la difesa sostiene che la prima delle lavoratrici sia uscita dall’ambulatorio e abbia influenzato, suggestionato le altre, come se le nostre assistite non avessero una capacità di discernimento. Non solo. Se tu medico vedi che la persona che hai davanti si mostra perplessa, fa delle occhiate, ti poni il problema, ti fermi, chiedi spiegazioni. La mia assistita ha immediatamente ritratto la mano dopo la misurazione della pressione e non ha voluto continuare la visita», ha sottolineato l’avvocato Bracchi.
Sulla misurazione della pressione in quel piccolo spazio, il camice bianco l’aveva spiegata così: «In quel momento io sono un medico, sto facendo una visita medica, sto misurando la pressione. Sono concentrato. Siamo a distanza ravvicinata, sicuramente non puoi stare lontano un metro, come fai a gestire la misurazione? Devi essere vicino. Io non ho assolutamente mai avuto la percezione del contatto. Sono concentrato a fare un’altra cosa».
«Lo spazio era piccolo? E allora quando ti misurano la pressione nel bugigattolo di una farmacia come la mettiamo?», ha rilanciato l’avvocato Bracchi che si è detta soprattutto «infastidita» da quell’aggettivo — «grottesche» - con cui la difesa ha bollato le dichiarazioni delle lavoratrici. «Parole forti, io ‘ grottesche’ non l’ho mai sentito in 35 anni di carriera». Il 31 ottobre, il gup emetterà la sentenza.
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