L'ANALISI
GIORNATA DELLA RISTORAZIONE: LA SIFA DELL'OSPITALITÀ
18 Maggio 2024 - 05:25
Anceschi, Galbiati, Losa, Lupi e Malinverno
CREMONA - Da un lato l’ospitalità, cioè l’arte di emozionare e generare benessere a tavola; dall’altro l’economia, quella di un settore che vale 54 miliardi ma deve fare i conti con food cost e spese vive in lievitazione. Sono i due poli tematici della Giornata della ristorazione, che si celebra oggi in tutta Italia grazie all’iniziativa di Fipe-Confcommercio. Una festa che è anche un’importante occasione di riflessione. Ad analizzare i temi chiave per la categoria, in rappresentanza dei tre distretti del territorio, sono Alessandro Lupi, titolare del Cookies di Cremona (oltre che presidente della Fipe provinciale), Federico Malinverno, giovane patron del Caffè La Crepa di Isola Dovarese, e Erika Galbiati, frontwoman de L’Antico Sapore di Rivolta d’Adda, insieme alla figlia Sara Losa, capa pasticciera. Accompagnati dal direttore di Confcommercio Provincia di Cremona Stefano Anceschi, si sono confrontati sul ruolo e sulle sfide imprenditoriali e manageriali della ristorazione nella redazione del quotidiano ‘La Provincia’.
I tre ristoratori concordano su un punto essenziale: ospitalità significa «fare sentire i commensali come a casa» e «lasciare loro un ricordo vivo, sia sul palato che nel cuore». Ma c’è di più: «L’ospitalità è la cultura dell’accoglienza — spiegano —. Prendersi cura dei clienti vuol dire considerarli veri e propri ospiti. Un salto culturale che richiede stima, fiducia e rispetto reciproco». Ma la reciprocità a cui aspirano gli alfieri della ristorazione cremonese è tutt’altro che scontata: «Oggi l’ospite è tendenzialmente più consapevole e preparato di un tempo — sottolineano —. Però, non di rado, la competenza gastronomica è solo presunta: l’esplosione di popolarità del food in tv e sui social fa sembrare tutto semplice e rischia di generare pericolosi cortocircuiti». Insomma: chi si siede a tavola è convinto di avere gli strumenti per giudicare il complesso lavoro del ristoratore soltanto perché non si è perso neppure una puntata di MasterChef.
Imprenditori, manager, cuochi, sommelier, addetti di sala (e non solo) hanno una missione precisa: «Incuriosire, far conoscere il territorio e valorizzare i prodotti e i piatti distintivi», affermano in coro Lupi, Malinverno e Galbiati. Nell’Italia dei mille sapori, ognuno ha il dovere di promuovere le proprie specificità nel miglior modo possibile. Per sé e per la propria comunità di riferimento. «L’unico antidoto — sono convinti i ristoratori — alla globalizzazione del gusto e alla diffusione del cibo spazzatura». Che non è affatto conveniente come potrebbe sembrare: «Chi consuma nei fast food crede di spendere meno. Invece, rispetto alla qualità del cibo proposto, i margini di guadagno delle grandi catene sono di gran lunga superiori a quelli degli onesti ristoratori. Che fanno ricerca, hanno conoscenze approfondite e svolgono un essenziale ruolo sociale».
La ristorazione, oggi più che mai, è a caccia di giovani professionisti. Reperire personale qualificato per cucine e sale è un’impresa: «Il problema parte dalle scuole alberghiere, che dovrebbero insegnare la tecnica e, ancor di più, il valore del sacrificio. Diffondere della cultura del lavoro è essenziale per recuperare la tradizione e portare a valore la nostra bellissima fatica quotidiana. Oggi il concetto di carriera sembra non esistere più: dopo il diploma si punta a diventare chef o direttori. E a perderci è il sistema Italia». Il tema della formazione chiama in causa anche la clientela e perciò, secondo i ristoratori cremonesi, coinvolge l’intero sistema educativo: «La cucina è parte fondamentale della nostra cultura, ma nelle scuole non si parla praticamente mai di cibo. Sarebbe fondamentale impostare percorsi di educazione alimentare fin dai primi cicli scolastici».
Nell’era delle cucine-show, le tradizionali guide ai ristoranti (per prima la Michelin) restano un riferimento per gourmet e addetti ai lavori. Ma non per l’ospite-tipo. Totem sconsacrati? I ristoratori non la pensano così: «La Stella Michelin non deve certo essere un’ossessione, ma l’ambizione a vedere riconosciuto il proprio impegno è uno stimolo sano e un termometro della passione per il nostro lavoro. In ogni caso, le stelle che contano davvero sono quelle sedute ai tavoli dei nostri locali due volte al giorno».
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