L'ANALISI
16 Maggio 2024 - 19:09
CREMONA - La Corte d’appello di Brescia ha dato ragione a Raffineria Tamoil, ribaltando la sentenza del Tribunale di Cremona di condanna del colosso libico a risarcire la canottieri Flora con 67mila euro: la differenza delle maggiori spese sostenute dalla società in riva al Po per l’acqua pubblica attinta dall’acquedotto tra il 2007 e il 2009. Per attingere e utilizzare l’acqua pubblica ci vuole, infatti, la concessione. Ma in giudizio, la Flora non ha prodotto il provvedimento. «Avevamo prodotto la domanda per ottenere la concessione, inoltrata nel 1993 a Regione Lombardia», spiega l’avvocato Fabio Galli. Non è bastato. E senza la prova della concessione, il risarcimento è stato azzerato. «Stiamo valutando se ricorrere in Cassazione — aggiunge il legale —. Ne parleremo con il presidente della canottieri Pierangelo Fabris».
Il 2007 è l’anno in cui esplode il caso Tamoil, l’inquinamento da idrocarburi causato dalla rete fognaria ‘gruviera’ della raffineria. Si fanno i rilevi, la piscina della Flora è contaminata. Il sindaco firma l’ordinanza con cui si vieta alle canottieri l’utilizzo dei propri pozzi. La Flora ne ha due. Li ha costruiti molti anni prima con l’autorizzazione della Regione Lombardia (le delibere sono del 1989). Ci si deve attaccare all’acquedotto pubblico. E, naturalmente, le bollette sono più care.
La Flora trascina Tamoil davanti al giudice. Al ricorso allega le fatture. E le bollette per il giudice sono sufficienti a dimostrare l’utilizzo dell’acqua pubblica. Tamoil viene condannata a risarcire la società con 53.879,45 euro più rivalutazione monetaria e interessi legali: il totale è di 67.324 euro.
Tamoil appella la sentenza. Nei motivi si duole che il Tribunale «ha ritenuto provato, per presunzioni, il diritto dell’associazione di attingimento dell’acqua dai pozzi pur non avendo la stessa allegato la relativa concessione, né la prova del pagamento del canone demaniale per l’uso di acque pubbliche dovuto alla Regione Lombardia».
Questo è il nodo. La Corte d’appello dà ragione agli avvocati Alberto Nanni e Daniele Vecchi, legali di Tamoil. Nelle 18 pagine di motivazione della sentenza, è scritto: «Si rileva che per il prelievo e l’utilizzo di acque pubbliche è necessario un provvedimento concessorio espresso rilasciato dall’Autorità competente, in quanto la disciplina del silenzio-assenso (articolo 20 della Legge sul procedimento amministrativo) non può trovare applicazione, come nel caso di specie, in procedimenti involgenti interessi di natura pubblicistica, quali l’ambiente, la salute e la tutela dal rischio idrogeologico».
Per i giudici, «i bollettini non si ritengono indispensabili ai fini della decisione della controversia in quanto provano solo che l’associazione derivava ed utilizzava l’acqua pubblica, ma non che possedesse il relativo titolo».
E aggiungono: «Il diritto di attingimento dai pozzi non è neppure desumibile dalle ordinanze del sindaco di Cremona con cui è stato inibito l’utilizzo dei pozzi, in quanto il rilascio delle relative concessioni rientra nelle competenze delle Regioni o delle Province».
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