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Picchiata dal figlio, prova a ritrattare per ‘salvarlo’

Finita al Pronto soccorso con un trauma cranico, ora dice: «Ho sbattuto contro il muro». Il 43enne, tossicodipendente, è in carcere dopo aver violato il divieto di avvicinamento

Francesca Morandi

Email:

fmorandi@laprovinciacr.it

16 Maggio 2024 - 08:28

Picchiata dal figlio, prova a ritrattare per ‘salvarlo’

CREMONA - Il 20 dicembre del 2023, sentita in questura per più di tre ore, aveva riempito pagine di verbali, raccontato i maltrattamenti subiti da anni da parte del figlio tossicodipendente che pretendeva sempre soldi. A volte lei glieli dava, altre lui li rubava. Gli insulti: «Sei una madre di m…., fai schifo». Le minacce: «Ti ammazzo, ti uccido». Le botte: ceffoni, calci e spintoni. Una madre terrorizzata al punto da chiudersi in camera da letto la sera e mangiare in stanza. Per tre anni.


Mercoledì 15 maggio 2024, ieri. In aula c’è la madre chiamata a testimoniare dal pm onorario affinché confermi le accuse — maltrattamenti — nei confronti del figlio, finito in carcere perché ha violato il divieto di avvicinarsi alla madre con l’applicazione del braccialetto elettronico. In aula c’è il figlio, 43 anni, sguardo sempre basso, seduto al banco degli imputati accanto al difensore Raffaella Parisi. La madre si accomoda, prima ritratta, smentisce se stessa («Io non ho detto quelle cose in questura, non è vero che mio figlio mi ha dato calci e pugni tutte le sere»), poi minimizza, addomestica la sua versione. In aula c’è una madre che vuole tirare fuori dai guai e dal carcere il figlio, a costo di rischiare la falsa testimonianza. Il giudice la mette sull’avviso non una, ma due, tre volte. «Signora, è uno strazio per lei ed è uno strazio per noi. Uno può avere tutta la comprensione del mondo, ma non ci si può far prendere in giro».


Agitata, a tratti in lacrime, in aula la madre esordisce dicendo: «Innanzitutto la denuncia non l’ho fatta io. I miei vicini mi hanno sentito e hanno chiamato le forze dell’ordine. Io ero molto, molto agitata. Mio figlio non mi ha dato uno schiaffo come avevo detto la prima volta. Io volevo punire mio figlio per tutta la vita stravolta, ma non mi sarei mai aspettata che si mettesse in moto questo meccanismo». Un meccanismo che — le ricorda il giudice — ha messo in moto lei, raccontando agli investigatori gli episodi che hanno poi riempito quattro pagine di capo di imputazione.

L’avvocato Raffaella Parisi


La sera del 19 dicembre, la madre è finita al pronto soccorso con un trauma cranico facciale. In Questura ha poi raccontato. «Mi ha tirato una sberla talmente forte che ho sbattuto con la nuca contro il muro». Dalla ferita perdeva sangue. In aula: «La sera del 19 dicembre, io ho dato a mio figlio una sberla sulla testa e sono andata a sbattere contro il muro. In ospedale mi hanno fatto qualche esame e non è risultato niente. La polizia mi ha sentito la mattina dopo per tre ore, tre ore e mezza. Nella stanza c’erano quattro poliziotti, facevano qualche domanda, una volta entrava uno, poi un altro, poi la pausa caffè. Io non ne potevo più. Se hanno inventato? In parte». Perché avrebbero dovuto inventare? «Ma no, qualche confusione in quelle tre ore e mezza». Il giudice la richiama, di nuovo, sul reato di falsa testimonianza.


«Io — spiega la madre — ero talmente tanto stanca che a mio figlio volevo fargliela pagare, ma non immaginavo. È un tossicodipendente e non ce la faccio più. Mi ha rubato dei soldi e qualcosa in casa, ma da lì a quello. Non è che mi trattasse con i guanti bianchi, però». Nega le minacce, la madre. «Una sola volta sulle scale ha minacciato me e la mia vicina, ma a lato pratico non mi ha mai fatto niente». Nega i ripetuti insulti. «Qualche volta, poche, mi ha insultato. Ma lo insultavo anch’io. Erano insulti reciproci».


Capitolo soldi. Il pm: «Lei ha detto che suo figlio i soldi se li prendeva comunque. Come?» «Una volta si è preso la mia carta di credito. Altre, li ha trovati in camera da letto, li tenevo lì». Erano continue discussioni per i soldi. La madre prende 800 euro di pensione: 100 li versa per l’affitto («la casa è dell’Aler»), poi ci sono le bollette da pagare, la spesa per mangiare. «Ci ho provato a mandarlo fuori di casa, ma poi mi spiaceva. Lui non lavora. Io se potevo gli davo 20 o 50 euro. Per me questa richiesta di soldi era un problema. Certo che facevo fatica ad andare avanti». E perché si chiudeva in camera da letto? «Perché ero stufa, lui continuava a chiedere i soldi. Ma mi chiudevo dentro non perché avessi paura. Non volevo che entrasse a rovistare nella mia camera, perché non avevo alcuna intenzione di dargli i soldi. Io non sopportavo più la tossicodipendenza di mio figlio e in qualche modo ho cercato di fargliela pagare». Processo aggiornato al 19 giugno.

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