L'ANALISI
10 Maggio 2024 - 05:20
NDOUMBI (CAMERUN) - Sono tornato da un viaggio-esperienza in Camerun per visitare il villaggio di Ndoumbi, dov’è presente una splendida missione gestita dalle Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento di Rivolta D’Adda. La carità e la finezza di queste donne giunge sino a questo angolo sperduto del mondo. Accanto ai tanti sentimenti che si muovono e si muoveranno nel cuore per i prossimi mesi, sono inevitabili alcune considerazioni, confronti, riflessioni. Dopo aver toccato con mano e visto con gli occhi l’estrema povertà in cui versano ancora queste popolazioni, non è possibile far finta di niente.
La voglia di giocare dei bambini, la lucentezza dei loro occhi, il canto che giorno e notte riscalda i villaggi e i cuori, si mischia all’estrema povertà delle baracche, alla sporcizia e al disordine che oltre a portare virus e malattie, toglie dignità all’essere umano. Vivendo con loro, anche solo pochi giorni, ci si chiede come possano passare in un istante dai vestiti lerci e stracciati del quotidiano, agli abiti coloratissimi indossati per entrare in chiesa e partecipare alla messa. Noi ore ed ore di trucco, lifting, shopping con l’unico scopo di apparire e far vedere ciò che non è, loro la scelta dell’eleganza destinata a onorare la Comunità e lodare Colui un giorno renderà giustizia agli oppressi.
È un popolo di grandi lavoratori. Solo che a differenza di noi che perdiamo le ore del sonno per accumulare, loro si spaccano la schiena per guadagnare il pane con il sudore della fronte.
Vivono principalmente di prodotti ricavati dalla terra, che lavorano con mezzi rudimentali. Con essi riescono a coltivare solo in superficie per trarre il minimo quantitativo di mais da mangiare. Poi banane, ananas, papaia, mango, frutti dolcissimi di ogni specie, a cui non tutti possono favorire, per colpa della miseria. Le zappe con cui dissodano la terra, feconda e rossissima, ha il manico corto. Questo li costringe a stare per lungo tempo piegati in basso sotto il sole che a metà mattinata supera abbondantemente i 30 gradi ed è accompagnato da un tasso di umidità che soffoca e debilita anche il fisico più vigoroso. A quest’opera sono impiegati tutti: uomini, donne, bambini… persone in età adulta, talmente affaticate, da sembrare più vecchie di quello che sono.
Le donne meritano di essere ricordate. Le africane sono una delle meraviglie del mondo. Oltre alle 7 o 8 gravidanze, (il primogenito è partorito tra i 16 i 20 anni), sono quelle che si sobbarcano la parte più dura dell’impegno di occuparsi delle faccende domestiche ed educare i figli. Al posto della ginnastica preparto, che le nostre fanno negli ospedali, attrezzate e istruite fin nei minimi dettagli, le madri africane lavorano nel campo fino al momento delle contrazioni. E un paio d’ore dopo aver dato alla luce il piccolo, le trovi intente a lavare gli altri bambini o preparare il cibo per la famiglia. Come faranno?
«I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello». Quanto ancora ci mettono al muro e pungono la nostra indifferenza queste parole di papa S. Paolo VI, del 26 marzo 1967. Le Suore Adoratrici vivono in questo villaggio, accanto ai poveri, da una ventina d’anni. Grazie all’intraprendenza di suor Fausta Beretta, passata anzitempo a miglior vita e a suo fratello, un imprenditore edile bergamasco, hanno costruito e dirigono un’efficiente struttura dedicata prevalentemente all’istruzione e alla sanità. Attualmente la comunità è composta da cinque religiose, tutte native del continente nero, tre del Congo e due del Senegal.
Accanto a suor Annemarie, che ha il compito della direzione generale, ci sono suor Marie, responsabile della scuola materna; suor Antoinette, che segue i ragazzi di delle nostre elementari e medie; suor Ariette incaricata della scuola professionale di taglio e cucito per le ragazze più grandi. A loro si aggiunge suor Franci, che al dispensario medico si prende cura dei malati, che il più delle volte arrivano con molto ritardo e in situazione grave, per essersi affidati prima, inutilmente, alle cure della ‘medicina’ tradizionale. Vivendo unicamente di carità, quest’opera ha un bisogno continuo di aiuto, di offerte liberali, di interessamento, di sostegno per poter andare avanti. Il lunedì, il martedì e il giovedì riescono a garantire un pane agli alunni della scuola, gli altri giorni no, pertanto li rimandano a casa nella speranza che possano trovare qualcosa per riempire quelle piccole pance sempre vuote.
Dopo questi giorni trascorsi vicino a tanta indigenza, è martellante il confronto fra le loro schiene faticosamente chinate a implorare pane da madre terra e le nostre ripiegate in ogni istante e in ogni dove sugli schermi degli smartphone e dei cellulari: le loro curvate per vivere, le nostre per ‘ammazzare’ il tempo vuoto; le loro per aprirsi alla condivisione, le nostre per chiuderci nell’egoismo, passivi e rassegnati a scelte politiche che ci hanno tolto la libertà di pensare, volte all’imposizione di leggi e divieti più che alla formazione di una mentalità nuova, sobria, altruista, rispettosa della nostra ‘casa comune’, che si trova a un punto di non ritorno.
Da anni, papa Francesco non perde occasione per metterci in guardia dalla «cultura dello scarto» e dalla «cultura dell’indifferenza». Al riguardo, fa bene riascoltare queste parole da lui pronunciate l’8 gennaio 2019: «Mi viene in mente una fotografia che è nell’Elemosineria: uno scatto spontaneo che ha fatto un bravo ragazzo romano. Ritrae una notte di inverno. Da un ristorante esce gente tutta ben coperta con le pellicce. Soddisfatti — avevano mangiato, erano fra amici — e lì fuori una senzatetto, sul pavimento, che allunga la mano per chiedere qualcosa. Il fotografo è stato capace di scattare il momento nel quale la gente guarda da un’altra parte. In questa immagine c’è «la cultura dell’indifferenza». L’amore è un’altra cosa. L’amore è compassione, è misericordia: l’amore fa il primo passo, sempre. È vero che l’opposto dell’amore è l’odio, ma un odio cosciente non c’è in tanta gente. Invece, anche oggi, l’opposto più quotidiano all’amore è l’indifferenza, quella che porta a dire: «Io sono soddisfatto, non mi manca nulla. Ho tutto, ho assicurato questa vita, e anche l’eterna, perché vado a messa tutte le domeniche, sono un buon cristiano. Ma, uscendo dal ristorante, guardo da un’altra parte».
Noi cosa possiamo fare? È la domanda che viene spontanea. Forse dovremmo informarci e conoscere di più. Forse dovremmo credere maggiormente nella potenza dei piccoli gesti di condivisione. La nostra società occidentale, e in essa la Chiesa, che vive in questo mondo, divenute ormai fiacche e appesantite dal benessere, se vogliono sopravvivere, messa da parte la mera conservazione di strutture e regole arcaiche, devono avere il coraggio di porre al primo posto la prossimità, la tenerezza, l’interesse per l’uomo, soprattutto il più fragile e dimenticato. «La Chiesa degli ultimi tempi offrirà a colui che ha fame non le pietre ideologiche dei sistemi, né le pietre teologiche dei catechismi, ma il pane degli angeli e un cuore di fratello umano offerto come puro nutrimento» (Evdokimov, L’amore folle di Dio).
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