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CREMA. IL PROCESSO

Schiava del sesso fatta arrivare dalla Nigeria

Due fratelli accusati d’aver sfruttato una 19enne che credeva di trovare un lavoro come baby sitter

Francesca Morandi

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fmorandi@laprovinciacr.it

16 Aprile 2024 - 18:36

Schiava del sesso fatta arrivare dalla Nigeria

CREMA - È arrivata in Italia a 19 anni: le avevano promesso un lavoro da baby sitter, si è ritrovata a vivere in schiavitù, sotto minaccia, costretta a prostituirsi a forza di botte, minacce e violenze. Finalmente libera, il 22 aprile prossimo Maria (nome di fantasia ndr), residente fuori Lombardia, racconterà la vita, la tratta, i sogni delle povere ragazze da marciapiede nigeriane come lei. E dei suoi presunti aguzzini: Edith e Paul, fratello e sorella di 37 e 35 anni, lei nata a Benin City, l’hub africano delle prostitute (l’85% delle prostitute nigeriane proviene da questa città). All’epoca dei fatti, tra il 2015 e il 2016, Edith era residente a Crema, il fratello a Offanengo. Oggi non si sa.

Maria oggi ha 27 anni. Lunedì prossimo, racconterà il dolore, la rabbia, l’umiliazione di chi è costretta a vendere il proprio corpo ogni giorno per settimane, mesi. Brutta storia di nove anni fa, approdata ieri davanti alla Corte d’Assise di Cremona dove si è aperto il processo per tratta di schiave e riduzione in schiavitù nei confronti dei due imputati, rinviati a giudizio dal gup Gaia Sorrentino, del tribunale di Brescia (la procura distrettuale è competente per materia). Oggi Edith e Paul non erano in aula. C’erano i loro difensori Michela Tomasoni e Alessandro Zontini, gli avvocati nominati d’ufficio. Non sanno nulla dei propri assistiti: non li hanno mai visti e neppure sentiti.

I capi di imputazione — due pagine — riassumono il viaggio di andata all’inferno di Maria su uno di quei barconi della speranza: l’approdo a Lampedusa, la salita al Nord. Secondo l’accusa, Edith e Paul avevano organizzato tutto, le pratiche di immigrazione dalla Nigeria all’Italia, il viaggio sino a Crema dove avrebbero istruito Maria e un’altra ragazza (lei mai identificata, soprannominata Joy) a prostituirsi non solo in casa, ma anche sulla strada di Spino d’Adda, indicando alle due sfortunate giovani il prezzo da richiedere ai clienti.

Trentacinquemila euro è la somma che Maria avrebbe dovuto consegnare agli imputati «per ritenersi libera dal vincolo creato dai suoi sfruttatori», passando le pene dell’inferno. L’accusa parla di minacce di morte. Se Maria si fosse ribellata, gli imputati avrebbero ucciso lei, ma anche i suoi familiari in Nigeria. L’accusa parla di violenza, di ripetute percosse anche con il manico di una scopa. E digiuni. Gli aguzzini spesso non avrebbero dato da mangiare alla giovane «per renderla più accondiscendente ai loro voleri». E ancora, Maria sarebbe stata sottoposta a trattamenti umilianti, «approfittando della situazione di necessità, di vulnerabilità e di soggezione» in cui versava.

In quei mesi infernali (in epoca anteriore e prossima a settembre 2015 e sino a giugno 2016, è scritto nel capo di imputazione) prostituendosi, la diciannovenne avrebbe consegnato via via ai suoi aguzzini poco più di 10mila euro. Finché un giorno, approfittando di una distrazione dei suoi sfruttatori, riuscì a chiamare suo padre in Nigeria. «Scappa, vai dalla polizia!», le disse il genitore. Maria riuscì a fuggire, si presentò al commissariato di polizia. Partirono le indagini. Gli investigatori sentirono anche i vicini di casa, i quali confermarono un andirivieni di uomini nell’appartamento (al processo sono stati acquisiti i verbali di sommarie informazioni).

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