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LE STORIE DI GIGIO

Sergente e bodyguard: «Ma non sono Rambo»

La vita avventurosa Simone Lazzarini fra rotte infestate dai pirati, Africa e Sud America

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

18 Marzo 2024 - 05:25

Storia Gigio

CREMONA - Il rischio è stato ed è il suo mestiere, ma non si sente per niente un Rambo. «Il bodyguard americano dei film con gli occhiali neri e la radiolina all'orecchio? Un clichè». Non c’è Paese o quasi in cui un innato senso dell’avventura e l’amore per un lavoro fuori dal comune non abbiano portato Simone Lazzarini, 53 anni, prima con la divisa da sergente della Marina italiana, poi come operatore sul fronte delicato della sicurezza. Nelle molte pagine del suo album non poteva mancare l’Ucraina, dove, con coraggio e professionalità, ha aiutato alcuni cittadini in fuga dal loro Paese, e dove, se ci fosse bisogno, è pronto a collaborare nella logistica per la bonifica dei terreni agricoli minati dall’esercito russo.


Cremonese, predilige il basso profilo, la riservatezza, stare lontano dai riflettori. Ma per una volta ha accettato di infrangere la regola del silenzio. «Dopo gli inizi da ragazzino come barista — racconta —, ho scelto la carriera militare. Sono entrato nella Marina seguendo la strada più banale: la mia domanda per prestare il servizio di leva in quel corpo è stata accettata e ho fatto i primi tre anni di reclutamento. Ero contento come mai lo sono stato. Concluso quel periodo, ho superato un esame e sono rimasto per altri tre anni». Ha partecipato, nel 1992 e nel 1993, a due missioni in Somalia per le quali il ministero della Difesa gli ha conferito, nel 1997, la croce commemorativa e l’attestato che mostra con orgoglio. Poi ha deciso di congedarsi.

«Oggi mi chiedo se sia stata la cosa giusta ma, ripensandoci, è un passo che dovevo compiere. Nulla accade per caso: ho ripreso a fare quello che facevo prima, seppure in modo diverso». È restato, infatti, nel settore navale ma come Pmc (Private military company) scortando le imbarcazioni mercantili nei mari più pericolosi. Lo ha fatto da quando lo Stato ha affidato questo difficile compito a società private, a una condizione: che si rivolgessero per svolgerlo a ex militari. Come lui. «Sono stato chiamato per una ventina di missioni, sempre lungo la stessa rotta: il Canale di Suez; la Somalia, il tratto più rischioso; lo Sri Lanka, e da lì verso Singapore. Si, mi è capitato di avere a che fare con i pirati, ma si è sempre trattato di contatti, come li chiamiamo noi, e non di attacchi».


Prima di quei numerosi viaggi tra l’Africa e l’Asia, c’era stato il Sud America. «Ho vissuto per quattro anni e 8 mesi in Venezuela, con Elena, la mia compagna, e Thomas, mio figlio. Avevamo progettato di mettere in piedi un’impresa tutta nostra: affittare barche ai turisti. Ma al potere c’era Hugo Chavez, che ha nazionalizzato l’economia distruggendo anche il settore del turismo internazionale. I miei familiari sono rientrati in Italia nel 2012 mentre io sono rimasto là per qualche mese rimboccandomi le maniche e sfruttando quello che sapevo fare meglio per conto di una compagnia americana con sede a Panama». Tra un’operazione e l’altra di contrasto alla pirateria in Somalia, ha svolto un diverso genere di attività di protezione che lo ha portato nuovamente lontano da casa.

«Ho accompagnato gli esperti che si recavano in Congo o in Kenya per testare l’oro trovato nelle miniere, acquistarlo e trasportarlo in sicurezza a Dubai. Un lavoro pericoloso». Con l’Africa ha fatto una vera e propria spola. «Sono andato in Tanzania con l’intenzione di tornare indietro dopo una settimana, invece ci sono rimasto per tre mesi. Sono stato anche in Uganda e in Tunisia, a protezione di due ingegneri, un uomo e una donna, di una società di perforazioni per gasdotti incaricati di compiere dei sopralluoghi ai confini con la Libia. Ricordo la sorpresa di uno di quei due tecnici che, mentre ci imbarcavamo all’aeroporto di Bologna, mi chiese il motivo della mia presenza: era la prima volta che venivano scortati. L’ho rassicurato e siamo partiti».


Da qualche tempo l’ex sergente ha messo le sue competenze al servizio di un’importante azienda, orgoglioso di poter stare al fianco di un top manager di primissimo piano, sempre in giro per il mondo. E con lui il suo ‘angelo custode’, con i bagagli in mano anche quando potrebbe riposarsi nella sua casa in montagna, «fuori da tutto e in completo relax». Non si è fermato nemmeno agli inizi della guerra tra Mosca e Kiev quando, con due amici, non ha avuto esitazioni a partire su un pullmino da Cremona per la Polonia con l’obiettivo di far uscire dall’Ucraina tre adulti e 3 minori. Per portare a termine «l’estrazione», come la definisce, erano pronti ad entrare nell’Ucraina appena invasa, ma non ce n’è stato bisogno, e ora Lazzarini parla di quella missione umanitaria come un semplice mordi e fuggi. Si è ritrovato nelle situazioni più svariate a ogni latitudine eppure non dimentica i volti di quei ragazzini: «Avevano la stessa espressione, gli stessi sentimenti che ho visto negli occhi dei bambini della baraccopoli di Nairobi: confusione, smarrimento, terrore».


Anche quella volta faccia a faccia, seppure non lo ammetta, con l’imprevisto. «Paura? Quella ce l’ho sempre, come l’adrenalina, l’ansia. Non credete a chi dice di non avere paura. La vera differenza è la sua gestione, saperla controllare. Il mio mestiere mi piace, sino a quando il fisico e la voglia reggono, continuo. Per fare questo lavoro sono necessarie due condizioni: che, appunto, ti piaccia e che la tua compagna sopporti il tuo essere spesso via da casa. Ma fortunatamente ho sposato una santa donna». Poi il professionista dell’avventura saluta e se ne va. Ha fretta perché è diretto, stavolta, non chissà verso quale lontana operazione, ma dal figlio in arrivo su un treno alla vicina stazione. Come un qualsiasi premuroso papà. Senza gli occhiali neri e la radiolina all’orecchio.

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