L'ANALISI
18 Febbraio 2024 - 18:42
Paolo Italia, Francesca Morandi, Roberto Menia e Marcello Ventura
CREMONA - «Cercherò di fare né il politico fastidioso, né quello che fa il professore. Vi racconterò tante storie, soprattutto con il cuore». Sono le storie che insieme fanno la storia, di migliaia di persone che a Guerra finita, hanno vissuto sulla propria pelle e pagato con la propria pelle il dramma delle foibe e dell’esodo. Storie di donne e uomini e bambini uccisi barbaramente dai partigiani di Tito, torturati e gettati morti o ancora vivi nelle foibe o nel mare «le foibe blu», colpevoli solo di essere italiani o servitori dello Stato. Sono le storie degli esuli istriani e dalmati; 350 mila in tutto, il più grande esodo della storia.
Nel suo ‘10 febbraio. Dalle foibe all’esodo’ (pubblicato da Pagine nella collana I libri del Borghese) Roberto Menia, 62 anni, natali a Pieve di Cadore (Belluno), senatore di Fratelli d’Italia e vice presidente della terza commissione permanente Affari esteri e Difesa, racconta una pagina nera soprattutto per l’Italia che per sessant’anni ha dimenticato i propri figli. Il libro lo ha presentato ieri sera fa al Teatro Monteverdi all’incontro organizzato dal circolo di Fratelli d’Italia con Paolo Italia del coordinamento cittadino che lo ha introdotto e con Marcello Ventura, consigliere regionale e coordinatore provinciale, che ha portato i saluti. Francesca Morandi, giornalista del quotidiano La Provincia di Cremona e Crema, ha condotto Menia nella narrazione di questa pagina di storia cancellata.
La presentazione del volume è avvenuta in occasione del ventennale della legge che nel 2004 ha istituito il Giorno del Ricordo per dare giustizia a migliaia di infoibati ed esuli. Ne è padre proprio Menia. «Ed è un po’ la cosa più bella che ho fatto nella mia vita politica , non lo avrei mai immaginato di farla. Ho cominciato a fare un po’ politica da ragazzo al liceo nel ‘75 , primo anno di liceo quando l’Italia firmò il trattato di Osimo, l’Italia lo sottoscrisse in maniera furfantesca di notte, senza che la gente lo sapesse, a 30 anni dalla fine della guerra, con il quale si cedeva alla Yugoslavia di Tito, l’assassino della nostra gente, l’ultima parte di Istria che era ancora Italiana».
Affermato con la legge «un principio», Menia è andato oltre. Figlio di madre esule da Buie, la sentinella d’Istria, borgo che si erge su una dolce collina e il cui campanile fa da faro diurno alle barche, con un meticoloso lavoro di ricerca (testimonianze e documenti storici) , ha preso carta e penna «per dare una narrazione a braccia e volti che chiedevano solo il diritto di essere italiani». Nel libro, che è «la prosecuzione della legge», c’è quello che Menia ha definito «una specie di terribile rosario del dolore e della sofferenza di queste terre». L’orrore di preti infoibati con le corone di spine, l’orrore di uomini decapitati come Bruno Cernecca, impiegato comunale di Gemino, arrestato da tre partigiani mentre rincasava da Trieste.
La sua testa fu portata da un metalmeccanico orologiaio per estrargli due denti d’oro. Preso l’oro, i partigiani con la sua testa ci giocarono a palla poi la buttarono sulle rotaie della vecchia ferrovia istriana. L’orrore di uomini che morirono gridando ‘Viva l’Italia’. O come Adolfo Landriani, custode dei giardini di piazza Verdi, a Fiume, affettuosamente chiamato il maresciallino per via della sua bassa statura. I partigiani lo presero, lo portarono in caserma e gli intimarono di gridare ‘Viva Fiume jugoslava’. ma lui gridò ‘Viva Fiume italiana’. E continuò a farlo «finché ebbe voce prima di morire contro la parete dove si divertivano a lanciarlo come se fosse un sacco da buttare».
Menia toglie il velo su personaggi spaventosi come il sacerdote sloveno Virgil Scek. Sentito dagli inglesi, il prete non volle amministrare i sacramenti «poiché non ne valeva la pena», ai morti buttati nel pozzo della miniera di Basovizza, monumento nazionale dal 1992. «Solo due presidenti del consiglio hanno reso omaggio alla foiba di Basovizza», sottolinea Menia: Francesco Cossiga nel 1991, la premier Giorgia Meloni il 10 febbraio scorso. Ed è «una vergogna» che oggi ad Aurisina (Trieste), una scuola statale con lingua di insegnamento slovena, «sia intitolata a Virgil Scek», mentre a Sgonico (Trieste) un’altra scuola sia intitolata: «1 maggio 1945, il giorno dell’invasione di Trieste».
Di «vergogna» in «vergogna», nel libro Menia svela «lo scandalo degli infoibatori che hanno ricevuto la pensione dall’Inps: un’altra delle vergogne sempre taciute da questa Italia». Uno è «Nerino Gobbo, il comandante Gino, condannato in contumacia a 26 anni, che prese la pensione per il servizio prestato in Italia: 523 mila lire per 13 mensilità con circa 30 milioni di arretrati». L’altro è «Ciro Raner, comunista, ex sottufficiale della Sanità del Regio Esercito». Ormai 90enne, si salvò dal processo per demenza senile. «In compenso, continuò a ricevere come ex militare italiano, la pensione fino alla fine dei suoi giorni: 596.750 lire per 13 mensilità, più 50 milioni circa di arretrati». Raner disse: «Ne ho diritto, ho fatto il soldato per l’Italia».
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