L'ANALISI
23 Dicembre 2023 - 05:00
Giuseppe Rossi
CREMONA - La premessa è inaspettata: «Sono emozionato, può darsi che ogni tanto la voce si rompa». E in effetti, succede un paio di volte. Giuseppe Rossi, varesino, classe 1954, ex chitarrista del Distretto 51, la band dello scomparso Roberto Maroni, arrivato a guidare l’Asst di Cremona il primo gennaio 2019 da Lodi, sembra aver pagato a catena l’accordo politico in Regione per collocare Matteo Stocco, in quota Fratelli d’Italia, al Policlinico di Milano, spostando l’attuale dg Ezio Belleri, meloniano anche lui, a Cremona.
Nelle settimane scorse era sembrato che potesse restare a Cremona almeno un altro anno per consentirle di impostare le fondamenta del nuovo ospedale. È deluso?
«No, deluso no. Ma purtroppo, quando si lascia una bella realtà si soffre. È come la fine di una bella storia».
Cosa farà adesso?
«È poco rilevante. Non sono più giovanissimo e ho già dato tanto. Ma penso che continuerò a lavorare in maniera altrettanto attiva. Non mi ci vedo a casa a guardare la tv».
Quali ricordi belli e brutti le lascia l’esperienza cremonese?
«Di questa esperienza mi resterà tutto, ma soprattutto lo spirito di corpo di questa azienda che resta la soddisfazione più grossa. Abbiamo portato questa azienda ad una visione fatta di persone che condividono lo stesso obiettivo: migliorare la salute dei pazienti. Ci siamo riusciti? In parte sì, ma la voragine è grande e serviranno decenni per colmare le lacune».
A questo proposito, le ultime ‘pagelle’ di valutazione diffuse ad agosto dalla Regione hanno penalizzato molti manager proprio per la questione delle liste di attesa: qual è la situazione?
«Qui sono nella media regionale. Ma bisogna dirlo: le liste di attesa sono incomprimibili. Sono anni che lotto contro la vulgata secondo cui se aumenta l’offerta di prestazioni, diminuisce la lista. Invece è vero il contrario: con più offerta, cresce anche la domanda. Bisogna cambiare l’approccio e un buon esempio è l’open access di Pisa».
Il suo nome resterà per sempre legato al nuovo ospedale: è un motivo di orgoglio?
«Sì, senz’altro un motivo di orgoglio. Ci abbiamo lavorato per anni e non è vero che abbiamo puntato subito al nuovo. La nostra prima idea era quella di ristrutturare l’ospedale esistente, ma ci siamo resi conto che quel percorso non era fattibile e che la strada migliore era costruire una nuova struttura. Primi in Italia, abbiamo fatto un concorso di progettazione che è stato un successo per il parterre notevolissimo dei partecipanti. E l’idea scelta è entusiasmante».
Fra i brutti ricordi c’è il Covid.
«Penso che Cremona sia stata la città più penalizzata come impatto dell’epidemia, ma non in termini di morti. Magari questo significa che siamo riusciti a dare molto, in modo che il bilancio, comunque tragico, non sia stato così drammatico come avrebbe potuto essere. E io, per questo, devo ringraziare tutti. Qualcuno è fuggito, ma gli altri sono rimasti e voglio ringraziarli. In quei mesi abbiamo fatto di tutto: io, ad esempio, ho fatto anche il portantino e l’autista».
Il suo rapporto con la città non è sempre stato ‘disteso’ e non sono mancati momenti di attrito: penso alla Medicina dello Sport o all’Area Donna. Cosa vuole dire oggi alla città?
«Io sono abituato a ragionare da tecnico e mi baso sempre sulle evidenze. Per questo, quando un desiderio non è fondato su un bisogno reale, tengo diritta la barra e cerco di soddisfare il bisogno reale. L’accordo degli amministratori non è mai venuto meno e la Medicina dello Sport è tornata e l’Area Donna oggi è meglio di prima. Ci sono passaggi che creano frizione, ma poi si superano. Non è un problema».
Cosa le resterà di Cremona?
«Cremona (e qui la voce si rompe, ndr) è dentro di me, la porterò sempre con me».
Lei ha una collezione di circa 3/500 cravatte divertenti prese in ogni parte del mondo: ha già deciso quale indossare nel giorno del suo saluto?
«Non ancora, ma la ringrazio di avermelo ricordato. E adesso ci penso...».ù
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