L'ANALISI
22 Novembre 2023 - 09:54
Francesco Nuzzo con la sua ultima opera ‘Giuseppe Cappi in Assemblea Costituente’
CREMONA - Nei suoi quarantanni di carriera sia da pm sia da giudice, ‘In nome del popolo italiano‘ - formula di intestazione delle sentenze - l’ha sentita pronunciare o l’ha pronunciata egli stesso, a seconda del suo ruolo nel processo. La scorsa estate, "mentre studiavo", Francesco Nuzzo, magistrato-scrittore ha scoperto che il "papà della formula era stato l’avvocato cremonese Giuseppe Cappi (Castelverde 14 agosto 1883, Roma 12 luglio 1963) fondatore della Dc, nel 1946 eletto all’Assemblea Costituente e facente parte della ‘Commissione dei 75’: settanta uomini e cinque donne ovvero Maria Agamben Federici, Angela Gotelli, Nilde Iotti, Lina Merlin e Teresa Noce tra le 21 elette nell’Assemblea Costituente (il 3,7% del totale) che furono scelte per la Commissione che doveva redarre la Costituzione. Cappi lavorò nella sezione seconda della Sottocommissione, sezione che trattava del potere giudiziario e della Corte Costituzionale.
"Da lì il desiderio, la curiosità di approfondire il lavoro di Cappi. Ho letto tutti gli atti parlamentari dal 6 dicembre 1946 al 27 gennaio 1947: sono 24 udienze della seconda Sottocommissione", spiega Nuzzo. Due mesi di full immersion, luglio e agosto. E’ nata così l’ultima sua opera: ‘Giuseppe Cappi in Assemblea Costituente’ (52 pagine, Industria Grafica Editoriale Pizzorni). Il volume sarà presentato il 24 novembre alle 18 nella sala conferenze della Società Filodrammatica, in piazza Filo, e il 2 dicembre al centro culturale Agorà di Castelverde (ore 9.30).
Il capitolo 8 è dedicato all’ingresso delle donne in magistratura. “Oggi la magistratura è più femminilizzata”, dice Nuzzo. Oggi fa rabbrividire il dibattito sul potere giudiziario della Sottocommissione divisa tra i contrari e i favorevoli. Il lavoro dell’Assemblea costituente “palesa aperture alla modernità e chiusure per risalenti pregiudizi”. Tra i contrari, Cappi “che riassume la ragione della sua opposizione in questa proposizione: a suo parere, nella donna prevale il sentimento al raziocinio, mentre nella funzione di giudice deve prevalere il raziocinio al sentimento”, scrive l’autore. Ma c’è di peggio. Giuseppe Codacci Pisanelli, politico, giurista e poi ministro “adduce la struttura fisica. Per sua diretta esperienza, un tempo, di magistrato, un’udienza a volte si protrae per ore ed ore e richiede la medesima attenzione da parte di tutti. E’ evidente che per un lavoro simile sono indicati più gli uomini che le donne. In altri termini, si tratta di quella stessa resistenza fisica che viene considerata quando si parla del servizio militare. Per tali considerazione ritiene che non sia opportuno ammettere le donne nella magistratura”. Contrario il deputato Enrico Molè, il quale, “dichiarando di aver combattuto la proposta di ingresso delle donne in magistratura sia in Consiglio dei Ministri che in seno alla Sottocommissione, asserisce ‘non trattarsi né di superiorità, né di inferiorità della donna di fronte all’uomo nella funzione giurisdizionale”. Per spiegare il suo no, si rifà alla scuola di Jean Martin Charcot, neurologo francese noto principalmente per i suoi studi neuropsichiatrici sull’isteria che ispirarono Sigmund Freud. E, dunque, “i motivi addotti riguardano il complesso anatomo-fisiologico che la donna non può giudicare”. “Insomma – annota Nuzzo -. È una isterica, tanto basta”.
Per Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica, “nessuna difficoltà esiste per dare un più ampio respiro alla donna nella partecipazione alla vita pubblica del Paese, ma la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giudiziaria non sia per ora da ammettersi… Negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione, che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.
“Anche uno sprovveduto in diritto – osserva Nuzzo – s’accorge dei banali luoghi comuni, e di scarsa efficacia dimostrativa oggetto perciò di attacchi simultanei da parte delle donne costituenti per una contestazione radicale, tutta mantenuta sul piano delle rispondenze storiche e logiche”. Così, Maria Federici “fece notare che in diversi Stati i diritti della donna sono eguali a quelli dell’uomo per tutti i settori della vita sociale e civile. Reputa impossibile che solamente in Italia si voglia mantenere un’inferiorità tra i sessi”. Poi, “l’argomentazione essenziale. ‘Quando si stabilisce che il merito e la preparazione sono i soli elementi discriminatori per quanto attiene alla possibilità di aprire tutte le carriere alle donne, non vi è da aggiungere altro. Quando invece, si parla facoltà, di attitudini , di capacità, si portano argomenti deboli che offendono la giustizia. Se è difficile, ad esempio, trovare una donna capace di comandare un Corpo d’armata, bisogna anche dire che vi sono tanti uomini incapaci’”.
Alla fine, i lavori assembleari “contengono un messaggio aperto al futuro: i principi di parità dignità dei sessi e di eguaglianza nelle cariche pubbliche elettive e amministrative sanzionano il diritto delle donne a operare in ogni settore della vita pubblica, anche se il legislatore sarà poco solerte nel ritoccare la previgente e contraria normativa, per adeguarla al dettato costituzionale”. In conclusione, “passeranno ancora tre lustri dall’entrata in vigore della Costituzione e ci vorranno alcune sentenze della Corte Costituzionale, che danno una spinta all’emanazione della legge 9 febbraio 1963, n.66 per l’ingresso delle donne in magistratura”.
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