Cerca

Eventi

Tutti gli appuntamenti

Eventi

STUDIO E RICERCA

Povertà, un lavoratore solo per famiglia spesso non basta

Scenari socio-economici emersi da un convegno al campus della Cattolica. Tra i nuovi poveri, ci sono genitori single con figli a carico e immigrati

Nicola Arrigoni

Email:

narrigoni@laprovinciacr.it

15 Ottobre 2023 - 05:25

Povertà, un lavoratore solo per famiglia spesso non basta

CREMONA -  La povertà o meglio le povertà come scenario di un futuro tutto da disegnare e ripensare. È questo il senso del convegno Poverty and Inequality: Empirical Evidence, Policies, and Measurement Issues organizzato dal Dipartimento di scienze economiche e sociali dell’Università Cattolica e dall’Associazione italiana per lo Studio dei Sistemi Economici Comparati (Aissec).

Nella due giorni al Campus di Santa Monica sono stati discussi i temi inerenti povertà e disuguaglianza con esperti di caratura nazionale e internazionale.

Chiara Mussida, docente di Politica economica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e Dario Sciulli, presidente Aissec e docente di Politica economica dell’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara hanno introdotto gli interventi di due ospiti d’eccezione. È questo il caso di Anne-Catherine Guio del Luxembourg Institute of Socio-Economic Research (Liser), e di Andrea Brandolini, della Banca d’Italia. Guio ha parlato dell’utilizzo di micro-dati per la costruzione di indicatori per la misurazione dei fenomeni di povertà e deprivazione materiale. Brandolini si è concentrato sui dati per la misurazione delle disuguaglianze e delle evidenze emerse negli ultimi decenni con un focus sull’Italia. Inoltre, si sono svolte quattro sessioni nelle quali sono stati presentati lavori di autori italiani e stranieri.

I temi trattati includevano la misurazione della povertà multidimensionale, la valutazione di politiche di contrasto alla povertà, la relazione con le condizioni del mercato del lavoro, il ruolo delle disparità di genere e dell’istruzione. Infine, sono stati presentati contributi relativi a questioni macroeconomiche, quali la distribuzione funzionale del reddito.

CLICCA QUI PER INGRANDIRE

poveri

Spiega Enrico Fabrizi, docente di statistica economica alla Cattolica: «In un convegno scientifico gli interventi sono molti e diversi, anche se tutti collegati a disuguaglianza e povertà. La presenza di ricercatori stranieri ha permesso di allargare lo sguardo su altri continenti. Le dinamiche economiche sono ormai globalizzate: la crisi finanziaria del 2008, la pandemia del 2020 hanno segnato un inasprimento della povertà in molte parti del mondo. A fasi di crisi, seguono fasi di ripresa. Le cose non tornano mai come prima, però: la geografia, anche sociale della povertà cambia. Per l’Italia il rischio di povertà, nel 2022 (ultimo dato disponibile) è un po’ più alto del 2008 (20% contro 18%), ma in mezzo ci sono stati periodi peggiori, soprattutto all’inizio del decennio e nel 2020 (con tassi fino al 26%). Mancano ancora i dati per capire quale effetto stia avendo la nuova fase difficile aperta dalla guerra in Ucraina e dall’inflazione che ne è seguita. La disuguaglianza è stabile nel Paese, ma cresce a livello globale. Come ha sottolineato Brandolini, Banca d’Italia, intervenuto sabato, l’estrema concentrazione di ricchezza in poche mani è una questione delicata per gli equilibri del potere e per la democrazia anche prescindendo da questioni di equità».

Chi sono i nuovi poveri?
«Povertà significa non riuscire a partecipare alla vita della propria comunità per mancanza di risorse. La misurazione fa tradizionalmente riferimento al reddito, ma la ricerca ha compreso che non è l’unica dimensione rilevante e si sta orientando verso altre dimensioni: la mancanza di istruzione, l’isolamento sociale, l’impossibilità di accedere ai servizi, il non essere mai padroni del proprio tempo sono dimensioni sempre più rilevanti della povertà. Nei decenni dello sviluppo economico dopo la guerra, ci eravamo abituati all’idea che il lavoro proteggesse dalla povertà: oggi non sempre è così. Lavoro precario, intermittente, salari bassi. Un lavoratore solo per famiglia spesso non basta: secondo la definizione Eurostat l’11% dei lavoratori è a rischio di povertà, contro un rischio del 20% per la popolazione generale. Rischio di povertà significa avere un reddito così basso da implicare una vita in povertà o la necessità di sostenere un livello di consumo adeguato attraverso l’erosione del risparmio o l’indebitamento. Non necessariamente indigenza, ma sicuramente una situazione di disagio. Tra i poveri, lavoratori o non, ci sono categorie tradizionalmente esposte al rischio di povertà come gli anziani soli, ma anche categorie ‘nuove’: genitori single con figli a carico e immigrati. Il rischio di povertà per le famiglie mono-parentali è del 30% contro il 20% della media nazionale, mentre il rischio di povertà degli stranieri regolarmente residenti è doppio rispetto agli italiani (35% contro 17%)».

Quali sono le soluzioni per venire in soccorso alle nuove povertà?
«La prima risposta è il lavoro, a patto che garantisca un minimo di stabilità e salari adeguati. Dove il lavoro c’è, le cifre relative al rischio di povertà si abbassano. In province come Cremona e Piacenza, secondo le stime elaborate da noi in Cattolica sui dati Eurostat, il rischio di povertà è meno della metà di quello nazionale. Siamo intorno al 9% per entrambe. Pochi territori fanno meglio, e non di molto. Ci sono poi le politiche, a livello nazionale e locale. Gli effetti del reddito di cittadinanza sono stati analizzati da diverse relazioni al convegno: effetti che ci sono sicuramente stati, ma che di cui non potremo sapere gli effetti nel medio e lungo periodo, visto che è già stato abbandonato. Un altro problema, che riguarda più il livello locale è quello che in gergo chiamiamo del non take-up, ossia il fatto che chi ha diritto a prestazioni o sostegni non riesca ad esercitarlo. La burocrazia a volte è complessa e le persone che vivono nell’indigenza hanno spesso un’istruzione limitata, difficoltà a spostarsi o ad accedere alle piattaforme online attraverso cui i servizi vengono erogati. Pensiamo ad esempio agli anziani soli».

Quale può essere il ruolo delle Università?
«Il primo impegno di un’Università è sempre nello studio e nella ricerca. Capire chi sono i poveri, di cosa hanno bisogno, valutare l’efficacia degli strumenti che vengono utilizzati per contrastare la povertà. Ci sono categorie particolari su cui stiamo concentrando gli sforzi. Penso in particolare ai cosiddetti NEET, ossia ai giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano. In Italia sono più di tre milioni, una cifra altissima. Capire le ragioni di questo fenomeno e quale possa essere un piano di azione è fondamentale per il futuro del Paese. Una seconda linea di ricerca riguarda la relazione tra povertà, disuguaglianza e le dinamiche famigliari. La situazione economica difficile di molte famiglie giovani ha un impatto considerevole anche sulla denatalità, un altro problema con cui le nostre comunità devono fare i conti. Infine, l’attenzione ai territori: in collaborazione con altri atenei cerchiamo di integrare fonti di dati diverse per permettere di mappare la povertà non solo per nazioni o grandi regioni al loro interno, ma anche a livello locale. L’elenco non è esaustivo, andrebbero citati anche i progetti dei colleghi di Agraria per la riduzione della povertà alimentare nei Paesi in via di sviluppo. Per un’Università cattolica povertà e giustizia sociale sono temi sempre al centro dell’attenzione».


Quale futuro ci attende?
«I tempi sono difficili, sfogliare i giornali in questi giorni sicuramente non aiuta. Nel breve periodo le prospettive non sono buone. Non dobbiamo dimenticare però i risultati ottenuti in passato e ispirarci a quelli. Grandi stagioni di riduzione della povertà le abbiamo già vissute. I primi decenni di questo secolo hanno visto una riduzione della povertà spettacolare in molti Paesi del mondo, soprattutto in Asia. Restando in Europa, i paesi dell’est dopo la loro entrata nell’Unione Europea hanno più che dimezzato tutti gli indicatori di povertà. Prima parlavo dei working poor e della necessità di politiche per ridurne il numero. Nella nostra esperienza storica i lavoratori poveri non sono poi così nuovi: prima del boom degli anni ’60 molti contadini e operai, anche nelle nostre zone, lo erano. Per uscire da questa fase un po’ complicata servono coesione sociale, investimenti mirati, nuove tecnologie».

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su La Provincia

Caratteri rimanenti: 400