L'ANALISI
L'INDAGINE 'DOPPIO CLICK'
12 Ottobre 2023 - 21:16
L'imprenditore Marco Melega
CREMONA - «Se ho deciso di sottopormi all’esame è perché, dopo quattro anni di attacchi, ritengo di spiegare la realtà dei fatti, di stimolare spunti oggettivi di riflessione». Ai ‘quattro anni di attacchi’ ribatte con cinque ore di difesa Marco Melega, 51 anni, l’imprenditore «appassionato di business, con una predisposizione al marketing e al commerciale da tutta la vita: mi sono sempre occupato di affari di un certo rilievo». Il manager, Melega, cascato dalle nubi quando il 16 luglio del 2019 e per tre giorni, finì in carcere nell’ambito della poderosa indagine ‘Doppio Click’ della Guardia di Finanza: la maxi truffa on-line con centinaia di italiani che, fidandosi delle campagne pubblicitarie lanciate su radio, tv e giornali nazionali (Mediaset, Radio 24 del Sole 24 Ore), comprarono di tutto — dalle bottiglie di vino ai droni, dagli smartphone ai Nintendo — sui siti sottocosto.online e marashopping.
Fecero il bonifico alla Promotional Trade, società aa cui era collegato sottocosto) o alla Domac (a cui era agganciata marashopping), ma la merce non arrivò mai. Quel 16 luglio, in manette ci finì anche Cristiano Visigalli, per l’accusa il «braccio destro» del «regista» Melega, dall’indagine ‘Doppio Click’ già uscito con un patteggiamento (in udienza preliminare), scaricando ogni responsabilità sul manager. E lui, Melega, rimpalla: «Io di vendite on line non mi sono mai occupato. Se ne è sempre occupato Cristiano Visigalli. Lui ha fatto le truffe».
Fisico da culturista, camicia bianca che pennella bicipiti, tricipiti e muscoli della schiena, pantaloni neri e sneakers, alle 9.47 Melega comincia la sua maratona difensiva con l’obiettivo di buttare giù il «castello di carta» delle Fiamme Gialle. Perché non c’è solo l’accusa delle truffe on-line. Nell’indagine sono finite «fatture false», società «con sedi fittizie come la Promowey che poi diventa Adv Company», società «con a capo teste di legno, ma tutte riconducibili a Melega». C’è, poi, la Consulting srl, definita «cartiera» in tutte le informative di chi ha indagato. «È falso. La Consulting srl aveva la sede pienamente operativa a Bussolengo (Verona), due palazzi da 350 metri quadri l’uno. Faceva consulenza, offriva la pubblicità ad altre società. Tra merci e crediti, era un’azienda con un patrimonio di diversi milioni. Io in Consulting ero una sorta di direttore operativo commerciale, mi occupavo di procacciare i clienti. Mi occupavo della Consulting con diligenza. Ero il kay man (l’uomo chiave)», ribatte Melega che bolla di «superficialità» le indagini.
Sicuro di sé, perché, secondo i suoi difensori Luca Angeleri e Ilenia Peotta «non ha nulla da nascondere», per le prime tre ore esaminato dal pm Chiara Treballi («Se qualcosa non le è chiaro, mettiamolo sul piatto: sono qui per spiegare», dice lui) e nelle due ore successive controesaminato dai suoi avvocati, l’imprenditore mastica il linguaggio economico-finanziario. Infila termini inglesi: da skill (competenza) a redemption (riferito ai buoni spesa) e deal («L’obiettivo è la chiusura del deal»: tradotto chiudere un accordo).
Racconta della suo pallino («passione») per il marketing pubblicitario. E di quando, nel 2006, mentre studiava negli Usa, a Miami, si appassionò al barter, il vecchio baratto: il pagamento di uno spazio pubblicitario sui mezzi di comunicazione effettuato da un’azienda attraverso prodotti e servizi dell’azienda stessa. «Berlusconi lo iniziò su Mediaset», dice. E spiega: «Il barter è un circuito commerciale etico, assolutamente buono. La Consulting si è sempre più evoluta sul barter. Le operazioni di barter non prevedono flussi di denaro». E, allora, «quello che hanno detto i finanzieri è assolutamente falso» in relazione a Mocautogroup, il colosso che tra il 2014 e il 2018, circa 2 milioni li investì in campagne pubblicitarie su Milano, affidandosi a Melega, perché, come hanno testimoniato i responsabili marketing del gruppo, «noi non prendiamo il primo che capita: abbiamo raccolto informazioni, il dottor Melega era un imprenditore di successo per come si era posto a livello professionale. Con la Consulting non abbiamo avuto problemi».
Melega racconta dell’amicizia trentennale con Visigalli («Ci siamo conosciuti da ragazzi, all’età di 17-18 anni). Un’amicizia fraterna. Si rivedono nel 2016. Visigalli è il mago delle vendite («la Domac è la società di famiglia»), Melega lo fa entrare in Consulting. Verrà assunto. «La bellezza della Consulting è che io ero scevro da qualsiasi adempimento burocratico, io mi occupavo della mia passione: marketing, comunicazione e aspetto commerciale». Melega lo dice e lo ripete che lui non si occupava di «burocrazia e di questioni amministrative», figurarsi di «vendite on line». Di queste «se ne occupava Visigalli, lui ha fatto le truffe, io non ne sapevo nulla. Nel 2017, dopo la morte del padre, le sue capacità di gestione e amministrative si sono via via frantumate. Andava veramente seguito, io gli ho voluto tanto bene. Mi sono sentito di supportarlo e sopportarlo nella sua originalità e nei suoi difetti». Nega, Melega, di essere il «regista» anche delle truffe attraverso sottocosto.online. «Nella Promotional Trade io avevo solo un ruolo di garante. Dev’essere malato di mente uno che decide di fare delle truffe con la società di cui è garante».
Al processo, i truffati hanno raccontato di aver mandato mail di sollecito della merce, di aver ricevuto in risposta mail di tali Marco Ferrari, Mauro Galli. «Per me erano referenti di Visigalli, io non entravo nel merito della sua operatività», precisa Melega. Nel suo smartphone, gli 007 della Finanza hanno trovato mail configurate. Ma il manager che ne sa di tecnologia, spiega il ‘granchio’ preso dagli investigatori (il Tribunale rigetta la richiesta della difesa di perizia «non necessaria ai fini del decidere»). Se «fino a marzo 2019 sarò stato superficiale nell’approccio, ma non avevo la minima idea di che cosa stesse combinando Visigalli», a marzo Melega capisce che «è tutto nebuloso; la figura di Visigalli è sempre più evanescente. Io ho percepito che c’era una truffa ai miei danni». A luglio l’arresto. «Non vedevo l’ora di essere sentito dopo quattro anni di attacchi», dice. Lo aveva già fatto a Milano in un processo fotocopia (in Corte d’appello) finito con la sua assoluzione che gli ha tolto «l’alone negativo». Rinvio al 9 novembre prossimo per le conclusioni di accusa e difesa.
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