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CREMONA: LA STORIA

Attilio Calza, medico senza tempo. La cura come una ‘missione’

Classe 1934, è ancora pronto a uscire ogni giorno con la valigetta per visitare i suoi pazienti

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16 Giugno 2023 - 05:15

Attilio Calza, medico senza tempo. La cura come una ‘missione’

CREMONA - Chiunque abiti in zona Castello avrà notato un dottore con una valigetta pronto a recarsi a casa di un paziente. Nulla di strano se il medico non fosse ‘un classe 1934’ e se non dichiarasse apertamente che la missione della sua vita sia «curare le persone». Lui è il dottor Attilio Calza, noto internista cremonese che rimanendo nella sua Cremona — «Perché era scontato stare vicino ai legami familiari più stretti» — ha vissuto l’evoluzione della medicina, da quella interpersonale, con limitati macchinari, ad una evidence based, praticata con strumenti robotici e intelligenza artificiale. Il dottor Attilio ha attraversato ere mediche, tenendosi costantemente aggiornato, al passo con i tempi. E ora unisce la lunga esperienza e le profonde doti umane alla freschezza e alla curiosità per le scoperte scientifiche più recenti.

Dottore, lei è testimone assoluto di questa evoluzione: quali sono stati i cambiamenti più evidenti dall’inizio della sua carriera?
«Sicuramente la comparsa dei grandi anziani. Oggi la medicina si rivolge a pazienti che hanno vent’anni in più di quando ho iniziato a fare il medico e presentano quindi patologie diverse. Negli ultimi trent’anni c’è stata una tale evoluzione nella farmacologia e nella diagnostica che la gente vive molto a lungo, anche se vivere a lungo è un bel problema. Io curo anche pazienti ultracentenari. Ne ho sempre di nuovi, alcuni sono novantenni, figli di miei ex pazienti. L’altro aspetto è sicuramente l’esplosione della tecnologia. Oggi diamo per scontati Tac e risonanze magnetiche, che all’epoca non esistevano. Fare una diagnosi era molto più impegnativo ed era necessaria una raccolta di dati del paziente minuziosa per inquadrare il caso. La medicina è cambiata anche grazie alla presenza dei più giovani: io ho meravigliosi maestri e alcuni sono freschi di specialità. La medicina non è un lavoro adatto alla solitudine, ha bisogno di un continuo interscambio, io mi relaziono costantemente con i colleghi. La mia vita è curare gli ammalati, ora ho molto più tempo per ascoltarli, per esaminare la documentazione pregressa. La maggiore risorsa che ho per potermi dedicare al paziente è il tempo: impiego anche due ore mettere insieme tutte le informazioni, perché in medicina il tempo è fondamentale. Per citare un autore cinese, è la più grande risorsa, ma non è gratuito, ed è limitato».

Dottore lei ha visto costruire l’Ospedale Maggiore inaugurato nel 1970 e conosce il territorio: quali sono le sue effettive necessità e le sue difficoltà ora che si costruirà il nuovo polo?
«La realtà della pressione sul Pronto soccorso che viviamo non è un problema locale, accade ovunque: i medici d’urgenza sono sottoposti ad un lavoro massacrante, fanno Tac anche la notte. Ma quello che mi preme puntualizzare è che l’ospedale ha un eccesso di richieste e che non può sopperire alle carenze di servizi esterni. La verità è che si deve sviluppare tutto ciò che c’è prima dell’ospedale: la struttura, che ha reparti eccellenti, non potrà mai far fronte a quello che manca fuori. Oggi si assiste ad una medicina difensiva a causa del numero eccessivo di esami, servirebbe una maggiore selettività che si ottiene solo attraverso il potenziamento dei servizi. Occorre tenere il paziente a casa. Di fronte a certe attese per esami, una persona si reca al Pronto soccorso, che così risulta schiacciato fra l’ospedale che ha difficoltà a ricevere e i pochi medici. Il Maggiore è una costruzione concepita negli anni ’60 da persone che erano nate all’inizio del secolo. Una delle novità era la posta pneumatica che ora è preistoria e che, quando entrammo nel settembre del 1970, aveva già richiesto cambiamenti. Oggi c’è una tale evoluzione nelle tecnologie che io non ho le competenze per dire la mia sulla costruzione di un nuovo nosocomio, lascio l’opinione a esperti tecnici ospedalieri».

Il vero nodo è la carenza di medici?
«Quella di medici di base è pesantissima a causa di un numero troppo basso di studenti ammessi alla facoltà di Medicina: l’esame di stato non abilita alla professione, ai miei tempi si poteva lavorare per l’Inam, ora serve un corso di tre anni a numero chiuso. È sicuramente un percorso troppo lungo e con barriere».

Può l’intelligenza artificiale aiutare a snellire il lavoro del medico?
«L’intelligenza artificiale è un cervello, ma non potrà mai fare quel che fa il medico in quanto tale».

Ad esempio?
«Non potrà mai avere un’intelligenza e un’educazione profonde. È tuttavia indispensabile in molti settori, è soprattutto necessaria per la diagnosi istologica, genetica, molecolare. Ed è il passo per la medicina personalizzata basata sui dati, necessaria sulla selettività del ‘fare’ e ‘non fare’, spesso per ‘non fare’. L’intelligenza artificiale consente un confronto di dati, ad esempio con le patologie di cinquant’anni fa che si stanno ripresentando. Una su tutte: la tubercolosi, che si riteneva sconfitta e invece è tornata».

Il dottor Calza ha un inglese fluente che gli consente da sempre un’apertura sul mondo della medicina — l’ha imparato a Londra da giovanissimo — e si tiene costantemente aggiornato su Internet.
«Mio nonno mi diceva che occorrevano le lingue per affrontare il passaggio culturale. Internet è sicuramente una risorsa, ma ci ha allontanato dalla lettura tranquilla: lo sciame di notizie che arriva ostacola la componente didattica e io ho ancora nostalgia per la meravigliose riviste della biblioteca dell’ospedale Maggiore».

Estrae da un cassetto la fotografia del suo ultimo giorno di lavoro in clinica e puntualizza: «La medicina non ha confini, non ci sono le razze. In questa immagine ci sono io circondato da infermiere e personale sanitario: vengono da Albania, Nigeria, Marocco, Burkina Faso, dal Bresciano e dall’Irpinia. E tutte lavorano per prendersi cura dei pazienti, perché si riceve anche moltissimo dalle persone che si curano».

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