L'ANALISI
21 Luglio 2022 - 05:30
A un certo punto, ieri in Senato, Mario Draghi sembrava il gigante Gulliver imbrigliato sulla sabbia dai lillipuziani. Un protagonista «fuori scala» fatto prigioniero dai minuscoli abitanti di due isole vicine, ma divise da una storica rivalità. Nel romanzo di Jonathan Swift il Gigante Gulliver - grazie alla sua forza superiore - si libera velocemente dalle catene, ma non cerca vendetta: al contrario, si mette al servizio dell’imperatore e del suo popolo, li aiuta a sconfiggere i nemici dell’isola rivale e spegne l’incendio che rischia di distruggere il Palazzo reale. Il problema è che, dopo un po’, le sue osservazioni mettono in ridicolo le assurde lotte fra le varie fazioni dell’isola e lo fanno diventare scomodo, fino a essere dichiarato traditore e condannato a fame e cecità.
Rispetto a Gulliver, che si salva scappando dall’isola a gambe levate, Mario Draghi non sarà privato della vista né del cibo (almeno questo gli verrà risparmiato...), ma ieri è stato brutalmente sfrattato da Palazzo Chigi dagli stessi partiti che solo 17 mesi fa lo avevano invocato come il salvatore della patria e che in questo anno e mezzo si erano messi comodi comodi sotto il suo ombrello protettivo, uno scudo di competenza e di credibilità che ha garantito all’Italia i miliardi del Pnrr, la fiducia delle Borse e degli investitori internazionali, un ruolo di primo piano in Europa, la svolta decisiva nella gestione della campagna vaccinale (che fino ad allora languiva fra proteste no vax e «primule» mai sbocciate) e l’avvìo di quelle riforme che il Paese attende da sempre, ma che nessun Governo «scelto dal popolo» ha mai saputo realizzare.
Proprio come il Gigante Gulliver, Mario Draghi a un certo punto ha iniziato a dare fastidio: troppo determinato, troppo intransigente, troppo refrattario alla mediazione e al compromesso. Uno stile emerso anche ieri in quello che resterà il suo ultimo discorso da Presidente del Consiglio: anziché pietire «una fiducia di facciata» (cit), Draghi ha scolpito nella pietra i punti del suo programma di lavoro: sì agli aiuti a famiglie e imprese, sì a nuove forniture di armi all’Ucraina, no alla burocrazia, alla corruzione e all’assistenzialismo, sì alla transizione ecologica e ai rigassificatori di Piombino e di Ravenna, sì alle riforme del Csm, delle concessioni balneari, del catasto, dell’Iva e dei taxi, no all’«inaccettabile dipendenza energetica dalla Russia», sì al salario minimo, a «un’agenda sociale che parta dai più deboli» e alla revisione di un fisco «spesso iniquo». Soprattutto, no agli strappi e agli ultimatum di parte, che nulla hanno a che fare con la natura di un governo di unità nazionale. Come sia possibile bocciare un simile programma resta un mistero.
Ma la verità è che - al di là di qualche distinguo - la «non fiducia» non è maturata sull’agenda delle cose da fare: è stata una scelta totalmente politica. A prescindere. I partiti che l’hanno decisa al termine di una giornata convulsa si sono assunti una responsabilità enorme. E non priva di contraddizioni.
La Lega, per esempio, ha motivato la «non fiducia» con «l’interesse delle imprese e di chi lavora». Ma da Confindustria ai sindacati, tutte le organizzazioni di categoria nei giorni scorsi avevano chiesto ai partiti di confermare Draghi, non di mandarlo a casa.
Lo stesso vale per la metafora scelta dalla capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini: «Crediamo nel direttore d’orchestra, non negli orchestrali stonati». Obiezione condivisibile, ma incoerente con la decisione di mandare il Paese a elezioni anticipate. Un autogol tanto clamoroso che perfino una fedelissima della prima ora di Silvio Berlusconi come la ministra Maria Stella Gelmini subito dopo il voto di «non fiducia» ha annunciato il suo addio a Forza Italia.
L’impressione è che il centrodestra e il M5S abbiano fatto una scelta molto rischiosa per il Paese, senza calcolare che le conseguenze potrebbero essere pesantissime anche per loro. Il prossimo autunno governare l’Italia con l’inflazione a doppia cifra e lo Spread alle stelle sarà un’impresa per chiunque vincerà le elezioni. Sicuri che ne sarà valsa la pena?
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