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IL PUNTO DEL DIRETTORE

Il Governo «incenerito» da un atto irresponsabile

Neppure il più pessimista degli osservatori poteva prevedere che il M5S arrivasse a provocare una crisi di Governo in un momento di tale difficoltà per il Paese

Marco Bencivenga

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mbencivenga@laprovinciacr.it

15 Luglio 2022 - 05:30

Il Governo  «incenerito» da un atto irresponsabile

Come sia possibile che un Governo di unità nazionale cada a causa dell’opposizione di una singola forza politica a un progetto che riguarda una singola città - con tutto il rispetto dovuto a Roma Capitale - lo scopriranno (forse) i nostri nipoti se e quando l’Italia uscirà dal baratro in cui la sta cacciando il Movimento 5 Stelle.

Vero: il «non partito» fondato dal comico Beppe Grillo fin dal primo giorno in cui è apparso sulla scena politica si è proposto con toni minacciosi (dal «vaffa» al leggendario «apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno») ma neppure il più pessimista degli osservatori poteva prevedere che il M5S arrivasse a provocare una crisi di Governo in un momento di tale difficoltà per il Paese, con una guerra in corso alle porte d’Europa, la pandemia Covid che torna a preoccupare le autorità sanitarie, i miliardi del Pnrr che rischiano di evaporare come una bolla di sapone e un’inflazione che minaccia di divorare il potere di acquisto di milioni di famiglie e di affondare definitivamente migliaia di imprese.

Tutto questo perché? Perché insieme ad alcune battaglie di bandiera del Movimento, come il reddito di cittadinanza - misure sulle quali il presidente del Consiglio era disposto a trovare un punto di mediazione - nel decreto «Aiuti» ieri in discussione in Senato era stata inserita una norma che favoriva la costruzione di un inceneritore a Roma. Capito il paradosso?

La forza politica che ha amministrato la città eterna negli ultimi cinque anni senza riuscire a risolvere il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti ha fatto cadere il Governo perché contraria all’unica soluzione davvero efficace per liberare Roma dalla montagna di «monnezza» che la rende più simile a una baraccopoli che a una moderna capitale europea: un «no» esclusivamente ideologico, considerato il fatto che le tecnologie di ultima generazione garantiscono ormai la piena sostenibilità di simili impianti, sicuramente preferibili alla costruzione di nuove discariche o allo smaltimento incontrollato.

Raccontano le cronache politiche che l’ex sindaca Virginia Raggi - quella che ha aperto le porte di Roma ai cinghiali, anziché alle spazzatrici - mercoledì sia stata una delle più dure nella riunione del Consiglio Nazionale del M5S che ha deciso di ritirare la fiducia a Mario Draghi: «Se votate il Decreto Aiuti, mollo tutto anch’io».

Anziché cogliere la palla al balzo, i suoi colleghi pentastellati l’hanno assecondata, aggiungendo benzina al fuoco che già stava incendiando Palazzo Chigi. A nulla sono serviti gli appelli alla responsabilità dei pompieri Pd e perfino gli accorati appelli del Vaticano («Nello scenario attuale, per far fronte a sfide epocali che nessuno poteva immaginare, dobbiamo lavorare tutti insieme e non dividerci, perché la stabilità di Governo è fondamentale per affrontare e risolvere i problemi», aveva ammonito il Segretario di Stato Pietro Parolin, inascoltato).

Nessuna mediazione è servita: alla fine hanno vinto i grillini «duri e puri» e l’ex premier che si era autoproclamato «avvocato del popolo» ha ceduto all’ala più estremista del movimento. Proprio lui che dal primo giugno 2018 al 13 febbraio 2021 ha sperimentato in prima persona quali e quante responsabilità ricadano sulle spalle di un Presidente del Consiglio si è slacciato la cravatta, ha tolto la pochette in seta dal taschino della giacca e, indossando i panni del rivoluzionario, ha ghigliottinato Draghi come un Di Battista qualsiasi.

Così, a due anni dal Papeete gli italiani si ritrovano un’altra volta senza Governo in piena estate: allora fu Matteo Salvini a farsi autogol, aprendo le porte a un ribaltone politico, dal «contratto» Lega-M5S all’alleanza M5S-Pd.

Ora, se «San» Mattarella non farà un nuovo miracolo (respingendo le dimissioni di Draghi e rimandandolo in Parlamento per ottenere una maggioranza che prescinda dai pentastellati oppure varare un governo balneare per approvare il bilancio dello Stato. Nel caso: guidato da chi? E sostenuto da quali forze politiche?) l’unica strada possibile sembra l’ennesimo ricorso alle elezioni anticipate della storia repubblicana.

Il centrodestra non pare dispiacersene più di tanto, confidando nel vento favorevole dei sondaggi, anche se - come recita l’antico adagio - fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: fuor di metafora, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia dovranno trovare un reale punto di equilibrio e un’unica leadership condivisa. E non sarà così facile.

Il Pd, superata la crisi del 2018, potrebbe consolidarsi come forza «responsabile», ma non avrebbe comunque i numeri necessari per governare, anche perché il grande centro (l’area dei possibili alleati che va da Calenda a Toti, passando per Sala, Renzi, Di Maio e Mastella) da qui al voto non farà in tempo a darsi una forma compiuta, un programma e un leader condiviso.

E il M5S? Quel poco che ne resterà, tornerà a fare l’unica cosa che sa fare: dire no a tutto e urlare i suoi «vaffa» nelle piazze.

Il problema vero è che l’Italia, nel frattempo, rischia di fare il botto. Ma il botto grosso. Fossimo ai tempi dei Romani - quelli che costruivano ponti, strade e acquedotti in tutta Europa, non quelli che oggi si oppongono ai termovalorizzatori - diremmo che Conte avrà ottenuto una vittoria di Pirro, una battaglia vinta a un prezzo talmente alto da poi perdere la guerra. A duemila anni di distanza, purtroppo, stavolta non vincerà nessuno: perderemo tutti. E sapere con chi prendersela consola davvero poco.

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