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IL PUNTO DEL DIRETTORE

Mustafà, lo «ius scholae» e tanti dubbi

Un bambino di nove anni costretto a fare il «vu cumprà» in spiaggia ci mette dinanzi alla disuguaglianza economica fra il Nord e il Sud del mondo, allo sfruttamento del lavoro minorile, all’immigrazione incontrollata, ai problemi dell’integrazione, alla difficoltà di trovare la risposta giusta

Marco Bencivenga

Email:

mbencivenga@laprovinciacr.it

03 Luglio 2022 - 05:30

Mustafà,  lo «Ius Scholae» e tanti dubbi

Alla sua età Mustafà dovrebbe essere in spiaggia con gli amici. A giocare. Invece, vende collanine, bandane e lacci per i capelli. Col suo faccino simpatico conquista tutti: mamme, nonni, nipoti, potenziali clienti. Ha un sorriso irresistibile, l’occhio vispo, la lingua sciolta. Ingaggia l’interlocutore con abilità, astuzia e un pizzico di malizia. Fosse napoletano, sarebbe uno scugnizzo da cartolina: metà genio, metà mariuolo. Invece ha la pelle nera: viene dal Senegal, anche se, dice, abita a Como. E «lavora» in Sardegna.

Anziché una bibita e la merendina, stamattina la mamma gli ha messo nello zaino un piccolo bazaar. «Vendi più che puoi, ma non svendere nulla», l’ordine esecutivo. Il laccio per i capelli non può scendere sotto la soglia dell’euro (nemmeno con la formula del 3x2), il braccialetto e il bandana non valgono meno di cinque.

Ma il problema non è il tariffario: il problema è un bambino di nove anni costretto a fare il «vu cumprà» in spiaggia. Al pari della sorella maggiore. Che dice di averne 18, ma viene subito ripresa dal fratello in versione «bocca della verità»: «Farà 17 anni a novembre». Peccato che la mitica Ruby non avesse un fratellino altrettanto sincero. Ci saremmo risparmiati una figuraccia.

«Ciapalì ciapalà…. È arrivato Mustafà…», annuncia con baldanza il baby venditore abusivo. Anziché la filastrocca di Natale, per strappare la mancia ai nonni, mamma e papà gli hanno insegnato il ritornello da spiaggia, per attirare clienti.

La canzoncina suscita simpatia, ma allo stesso tempo mette i destinatari di fronte ad alcune fra le più grandi contraddizioni dei tempi moderni: la disuguaglianza economica fra il Nord e il Sud del mondo, lo sfruttamento del lavoro minorile, l’immigrazione incontrollata, le difficoltà dell’integrazione…

«Tu sei ricco: hai tablet e iPhone…», obietta Mustafà, quando gli faccio capire di non essere interessato ad acquistare la sua merce. «È ricco chi ha salute e intelligenza, non tablet o telefonini», provo a filosofeggiare, prima di cercare rifugio in una verità di comodo: «Io li devo avere perché li uso per lavoro...». «Perché? Che lavoro fai?», incalza il piccolo venditore di bandane, braccialetti e collanine. «Scrivo… Per lavoro scrivo. Vedi?», e inizio a digitare sulla tastiera: «Il mio amico Mustafà mi fa un sacco di domande…».

La sua reazione è un concentrato di meraviglia: «Come fai a scrivere così veloce?». Anni e anni di allenamento, mi verrebbe da rispondere. Ma non faccio in tempo a dirlo, che arriva un’altra domanda, ancor più carica di stupore: «Davvero scrivi una storia su di me?». Vorrei rispondergli: «Sì, per denunciare ciò che vedo: un bambino di 9 anni costretto a lavorare sotto il sole e che, magari, viene rimproverato o addirittura picchiato ogni sera se non ha incassato abbastanza…».

Lo facessi, probabilmente sarei un giornalista migliore. Preferisco ascoltare, capirne di più: «Perché possa scriverla, dovresti raccontarmela tu, la tua storia…».

Mustafà scava nello zainetto, trova un telefonino (allora ce l’ha anche lui!), chiama la mamma, le spiega la situazione e le chiede il permesso di parlare con uno strano signore che scrive sul tablet a una velocità mai vista. La mamma dà il via libera.

Ma il racconto di Mustafà è tutt’altro che personale, parte da molto, molto lontano: «Una volta i Francesi venivano in Africa, prendevano i nostri bisnonni, davano loro delle sciocchezze, tipo elastici o piccoli specchi, e con quella scusa li facevano salire sulle loro grandi barche. Poi andavano in mezzo al mare, li picchiavano e li mettevano in prigione. Un giorno presero uno di loro e gli chiesero come si chiamasse. Lui rispose: Kunta Kinte. E loro: no, Toby. E lui: Kunta Kinte. Loro: Toby! Lui: Kunta Kinte! E intanto lo frustavano sulla schiena, fino a che lui, all’ennesima domanda - come ti chiami? - rispose Toby! Allora smisero di frustarlo…».

Kunta Kinte si era sottomesso, era diventato uno schiavo. Come possa un bambino di nove anni conoscere il libro scritto nel 1976 da Alex Haley, intitolato «Radici» e diventato una serie tv di successo in tutto il mondo è un mistero. Forse le scuole in Senegal funzionano meglio che in Italia. Quanto meno insegnano bene Storia e Letteratura. Peggio sarebbe se Mustafà fosse stato indottrinato a odiare l’uomo bianco. Anche se… in fondo facciamo qualcosa di simile anche noi, quando ai nostri figli che fanno i capricci, chiediamo di smetterla «altrimenti arriva l’uomo nero».

La lotta al razzismo dovrebbe partire da qui: dall’educazione, dalla scelta delle parole, dalle storielle che raccontiamo ai più piccoli. E mentre il Governo Draghi rischia la crisi sullo «ius scholae» - il riconoscimento della cittadinanza italiana a ogni bambino straniero che abbia frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia proposto in Parlamento dal centrosinistra e avversato dalla Lega - gli occhioni di Mustafà ci interrogano, ci inchiodano, attraversano la nostra coscienza: che fare? Chiamare i carabinieri? O la Guardia di Finanza? Gli assistenti sociali? O il Telefono Azzurro? Cosa può fare davvero il suo bene? Denunciarlo? Sottrarlo ai genitori irresponsabili e schiavisti o rivolgersi a un tribunale perché lo affidi a una nuova famiglia? Qual è la scelta giusta? Nel dubbio, faccio acquisti: un bracciale, un bandana, una collanina. Mustafà mette il «bottino» nello zaino. Forse stasera nessuno lo picchierà. Passa un «vu cumprà» adulto e saluta il piccolo venditore in lingua mandinga. «È tuo figlio?», gli domando. «No», mi risponde deciso. Mustafà lo guarda e, tutto orgoglioso, gli racconta: «Lui sta scrivendo una storia su di me…».

«Scrivo la storia di un bambino costretto a lavorare a soli nove anni», preciso io, volutamente provocatorio. «Lavorare? Mustafà sta giocando…», replica il padre-non padre, forse un fratello maggiore. O un cugino. Anche lui ha già capito tutto come funziona in Italia. Basta minimizzare. Metterla in burla. Negare l’evidenza.

Mustafà raccoglie le sue cose. «Ho sete», mi dice, come fosse mio figlio. Vado al bar, acquisto una bottiglia di Smeraldina e gliela allungo: «È tua». Il piccolo venditore prodigio la beve in un amen. Anche se è fredda. «Vai piano!», suggerisco. Forse Mustafà teme diventi subito calda. O che passi qualcuno e gliela porti via. Arrivato in fondo alla bottiglia, riavvita il tappo e mi batte il cinque: «Ciao, zio Marco…».

Poi si allontana verso un altro ombrellone e un altro cliente. Io resto con i miei dubbi: avrò fatto bene? O avrò alimentato il lavoro nero, l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento minorile? Avrei dovuto chiamare il Telefono Azzurro o, piuttosto, i carabinieri?

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