L'ANALISI
07 Giugno 2022 - 05:15
CASALMAGGIORE - Un cammino sulle strade d’asfalto, non in mezzo alla natura alla ricerca di spiritualità. Un esperimento sociale, un’immersione nel mondo del senzatetto, degli ultimi, degli «scarti» di una società che ha deciso di metterli ai margini e che non ammette redenzioni. È l’impresa che sta facendo Giuseppe «Giupi» Boles, da Trieste a Sassari, 4 mila chilometri a zig zag per l’Italia: Trieste, Genova, Siena, Roma, Santa Maria di Leuca, Agrigento, Palermo, Cagliari e Sassari, dove Boles finirà il suo cammino, forse, a settembre. Un’avventura iniziata il 27 febbraio per conoscere, capire e provare una realtà parallela, un mondo a parte popolato da persone «invisibili». Di giorno in cammino sulle strade asfaltate dove auto e camion passano a pochi centimetri, di notte a dormire dove capita tra un luogo di fortuna e un posto di accoglienza comparso quasi all’improvviso.
Com’è nata l’idea di questo viaggio?
«Per i miei 50 anni mi volevo regalarmi qualcosa di particolare. Un’esperienza potente e corrosiva, un viaggio tra gli ultimi, tra i senzatetto fatto da uno che non lo è. Inoltre mi permette di vedere un’Italia diversa e osservare cosa, in città e paesi, hanno fatto per valorizzare le loro bellezze. Un po’ come vorrei fare per Casalmaggiore».
Che sensazioni ha della prima parte del suo cammino?
«La strada dà, ma è anche vero che un certo tipo di strada toglie, o meglio assorbe. Nell’agosto del 2008 ho fatto il mio primo cammino che apparteneva alla cosiddetta vecchia scuola, quando ancora queste esperienze non erano di moda. Lo si affrontava con spirito puro, trasparente accumulando energia positiva giorno dopo giorno. Ma è nel sostituire la strada battuta con l’asfalto che si genera una vera e propria inversione di ruoli. Tanto basta per veder trasformato quel cammino in un viaggio privo del piacere di immergersi nella natura. Attraversare l’Italia — adesso sono nel Lazio — con la propria casa sulla schiena — ora trainata grazie a un carrellino offertomi da un altro viaggiatore — seguendo il catrame prima ghiacciato — sono partito in inverno da Trieste con la bora e il termometro la notte a -3 per dieci giorni di fila — e poi rovente, piegato dalla fatica, dormendo nascosto nei parcheggi, nei cimiteri, dentro container arrugginiti o antichi monasteri, aspettando il buio per paura di intimorire le persone che avrebbero potuto notarmi, è esattamente la nemesi di un cammino».
Che percezioni ha avuto?
«Arrivando dall’asfalto le persone vedono più un fuggitivo che non un pellegrino accogliendoti con l’indifferenza di chi sembra essere diventato tutto d’un colpo trasparente. Più sei sciatto e più diventi invisibile e molti fingono di non vederti. Ecco perché dico che la strada ‘dà e toglie’. La si affronta con l’impressione che qualcosa, una volta superata l’ennesima curva, ti stia aspettando, ma nella stragrande maggioranza dei casi ad attenderti c’è unicamente la solitudine. Una malinconia che quando cala la sera ti si avvinghia al collo. Ed lì che inizi a percepire il senso di un viaggio così impegnativo, io che un tetto ce l’ho e sono abituato alla luce tenue dei lampadari di Murano che da sempre arredano le stanze in cui vivo e, alzando lo sguardo, vedo quadri d’epoca e non lattine vuote, sporcizia e incuria. Poi capiti in Liguria e in Lazio dove un branco di cinghiali ti circonda e per farli scappare devi urlare come un pazzo. Qualcosa però mi diceva che era mio dovere osservare l’Italia anche da questa prospettiva. Occorre sporcarsi le mani, per non dire graffiarsele o tagliarsele, se ci si vuol davvero immergere in una realtà diversa dalla propria. Di certo ho raccolto strada facendo la consapevolezza delle differenti Italie che ora posso dire esistono: l’Italia delle regioni, l’Italia delle generazioni e l’Italia dello spirito che separa come una lama gli altruisti dagli avidi. Dei cosiddetti ‘senzatetto’ — miei connazionali, giusto specificare — ne ho incontrati parecchi lungo il cammino e da loro più che da ogni altro ho ricevuto l’inaspettato atto di umanità, il gesto delicato di chi vive una morte anticipata convinto che anche tu stia sulla loro stessa barca».
Quindi esiste una cultura della solidarietà tra i senzatetto?
«Sì, ed è automatica. L’ultimo esempio mi è capitato pochi giorni fa ad Ariccia. Ho incontrato Massimo, 61 anni di cui 30 passati in galera, ma ‘non ho ammazzato nessuno’ ha sottolineato immediatamente. Vive in strada con Gemma, la sua cagnolina. Voleva offrirmi qualcosa da mangiare, ma gli ho risposto che non ne avevo bisogno. È sparito e dopo pochi minuti è tornato con un panino con la porchetta tagliato in tre parti: una parte per me, una per lui e una per Gemma. I senzatetto sono un mondo a parte e pacifico. Invece con le persone normali bisogna rompere il ghiaccio per relazionarsi».
E come si fa?
«Riflettendo su quanto vivo giorno dopo giorno sono sempre più convinto che esista un qualcosa che più di ogni altra permetta di far sì che la strada abbia meno potere corrosivo condannando chi sulla strada c’è finito per davvero ad una morte anticipata. Questo qualcosa si chiama ‘cultura’ e, credo, sia l’unico mezzo per evitare a tanti di finire sulla strada. Grazie a lei ho ricevuto in regalo pane, pasta, caffè, vino, accoglienza ma soprattutto attenzione. Perché la cultura ti permette di rompere il ghiaccio, solleticando la curiosità di un barista o di un ristoratore. Ricordo ancora una cena offerta a Piazza del Campo a Siena dal proprietario di un noto locale dopo una simpatica lezione sulla capacità cognitiva delle piante. Niente di universitario, giusto un’infarinata per allargare le proprie conoscenze per essere più consapevoli del mondo ci circonda. La rivoluzione in positivo di una società si può ottenere solo da una sensibilizzazione della stessa. Nel mio cammino ho incontrato e parlato con tanti sindaci e assessori e il ponte è stata sempre la cultura. Come a Lucca quando un assessore mi ha invitato a un incontro con il poeta Franco Armino, che è il mio poeta preferito e nello zaino ho un suo libro. Una serata incredibile con un ‘barbone’ che faceva domande all’autore sulla sua poetica».
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