L'ANALISI
22 Agosto 2021 - 06:25
CREMONA - «Siamo nascosti e i talebani sono ovunque: abbiamo paura. Molta paura. Aiutatemi e aiutate la mia famiglia. Fatelo subito». Prima che sia troppo tardi.
È un appello disperato che si alza dal cuore infernale dell’Afghanistan di nuovo frustato da talebani, quello di Loqman Niazai, da 15 giorni bloccato nella bolgia in cui è caduto il suo Paese d’origine. Ha 32 anni, da sei risiede, lavora e vive a Cremona dove si è rifugiato alla ricerca di una vita diversa e di un futuro per la propria famiglia: la moglie Hajmina, 25 anni, e il figlio Emanullah, 2 anni appena compiuti a luglio. Il piano era quello di portarli definitivamente al sicuro in Italia, strappandoli ad una patria instabile che negli ultimi 20 anni ha conosciuto solo una parvenza di normalità, conservando intatte le proprie profonde contraddizioni. Con l’avvento dei talebani la situazione è precipitata e all’inizio di agosto anche Loqman ha dovuto accelerare per portar via i suoi affetti.
«Abbiamo tutti i documenti necessari, passaporti in regola, nulla osta. Manca solo il visto dell’ambasciata — racconta durante una delle poche telefonate via WhatsApp che si concede per non sprecare la batteria ma anche, e soprattutto, per non essere in qualche modo individuato dai talebani che controllano ogni via di comunicazione, anche la rete —. Il 17 agosto avevo un appuntamento per ottenere i documenti e partire, portando con me mia moglie e mio figlio, ma non ho fatto in tempo: l’ambasciata e gli uffici sono stati trasferiti in aeroporto e quest’ultimo è diventato impossibile da raggiungere per la presenza dei talebani. Come molti altri ero dietro la rete e cercavo di entrare, ma è stato inutile».
Una foto inviata a Rosanna Ciaceri, presidente dell’associazione Immigrati Cittadini di Cremona, con la quale è quotidianamente in contatto e che sta cercando di aiutarlo dall’Italia, lo ritrae vicino al reticolo spinato che circonda la pista di decollo diventata via della salvezza: l’immagine simbolo della disperazione di tanti connazionali che provano a scappare. C’è poi un’altra foto, scattata da Loqman durante la telefonata con La Provincia: è in una stanza al buio, tenuta così perché accendere la luce sarebbe una segnale di presenza. Sullo sfondo, coperta da un velo e dalla mascherina, la moglie che tiene in braccio il suo bambino. E in primo piano, con il capo coperto nell’abito tradizionale, mamma Zarhawaka.
«Dall’aeroporto me ne sono dovuto andare perché rischiavo di essere bersaglio dei cecchini – spiega il 32enne in un italiano chiaro, imparato sui banchi di scuola in questi anni dove ha ottenuto la licenza media – . Ci siamo rifugiati in un villaggio ma non posso dire dove. Con noi c’è anche mia madre di 68 anni: non voglio lasciarla sola qui, devo metterla in salvo. Non usciamo mai, qualcuno ci porta ogni tanto il cibo. Abbiamo cambiato nome, cerchiamo di non dare nell’occhio e non fare rumore: è troppo pericoloso. Oggi hanno sparato al medico del villaggio perché stava consegnando medicine considerate occidentali».
Un racconto che riporta alla mente altre storie di clandestinità, di soffitte e di cantine diventate, durante l’ultimo conflitto mondiale di cui l’Occidente spesso perde memoria, luoghi di difesa estrema nell’attesa della fuga per la libertà. «Abbiamo le borse pronte — spiega Loqman, rivelando come ogni giorno aspettare sia sempre più logorante —. Ci serve sapere in che direzione andare. La via dell’aeroporto è sbarrata, qualcuno deve aiutarci ad uscire dal paese passando dal Pakistan».
La meta è Karachi, centro economico e finanziario. È molto distante, ma è dove si trova il consolato italiano più sicuro da raggiungere. «Vi prego, chi può darci una mano lo faccia. Fate conoscere la mia storia». È la richiesta che Loqman ripete più volte. Ed è anche, insieme, la sua speranza più grande.
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