L'ANALISI
CRONACA NERA: LA STORIA
08 Ottobre 2022 - 05:25
CREMONA - Il 4 giugno ha compiuto 52 anni. È a Cremona da maggio del 2021, Nucleo Investigativo. Vi è arrivato da Piacenza dove abita con la moglie Sonia. Mirko Gatti, natali a Varese, è il luogotenente dei carabinieri specializzato in negoziazione (ha superato una selezione durissima), che a Roncadelle (Brescia) ha trattato per 15 ore con il papà che si era barricato in casa con il bimbo di 4 anni.
Luogotenente Gatti, com’è andata?
«Mercoledì pomeriggio ero in ufficio. Saranno state le 16.30, 16.50. Io stavo per andare a casa e ...».
L’hanno chiamata...
«Il tenente colonnello Girardi mi ha detto che dovevo andare a fare una negoziazione. Non sapevo ancora bene di che cosa si trattasse. Il Comando provinciale mi ha messo a disposizione un collega che mi seguisse per tutto il periodo».
È andato direttamente sotto casa?
«No, in caserma per evitare confusione, per evitare che il bambino si accorgesse. Mi hanno spiegato chi era la persona, qual era la situazione. Abbiamo deciso un primo piano che poi, nel tempo, abbiamo rivalutato. C’era personale qualificato. C’erano anche il comandante provinciale di Brescia e l’insider commander, il mio riferimento. Eravamo tutti ‘sul pezzo’»
Era tranquillo?
«Sì, perché tutti sapevano quello che dovevano fare».
Lei ha alzato il telefono.
«Stavo per fare il numero, è stato il padre a chiamare in caserma per dire quello che aveva fatto. Aveva voglia di parlare».
Com’era?
«Agitato. Abbiamo capito subito — ed è la cosa che ci ha tranquillizzato — che il suo scopo era negoziare tempo. Il mio scopo era, invece, di guadagnare tempo. Lui voleva avvantaggiarsi e arrivare all’8 ottobre, il giorno del compleanno del bimbo, io volevo che lo riconsegnasse il prima possibile».
Quanto è stato al telefono con il padre?
«Tanto. Ad intervalli, fino alle tre di notte».
Il papà aveva bisogno di essere ascoltato.
«Sì. E io gli ho offerto quello che avevo in quel momento: l’ascolto».
Che cosa vi siete detti?
«Mi ha raccontato tutta la sua vita, il lavoro che faceva. Vendeva auto prima. E si capiva che gli piaceva. ‘Mi ringraziavano tutti, perché mi dicevano che erano auto sicure’. Si vantava. Mi ha raccontato le vicissitudini della sua famiglia, il perché lo aveva fatto. Era consapevole di aver fatto...»
Un reato?
«Sì e si è assunto le sue responsabilità».
Lei sentiva il bimbo?
«Sì».
Gli ha parlato?
«Normalmente lo si deve chiedere: ‘Fammi parlare con il bambino’. Siccome lo sentivo, al papà chiedevo: ‘Come sta tuo figlio, sta bene?’. E lui: ‘Aspetta un attimo che gli metto i cartoni animati, che gli do da mangiare’. Sentivo la voce del bimbo. Siamo arrivati fino alle tre di notte. Sentivo che il suo tono di voce stava calando».
A quel punto?
«Gli ho detto: ‘Ho bisogno di riposare e anche tu. Ci sentiamo domani alle 6».
E il padre? Cosa le ha risposto?
«Mi ha detto ‘non ti voglio più sentire, devo passare il tempo con mio figlio, se lo devo passare al telefono con te...’».
In quelle tre ore non ha temuto che potesse accadere qualcosa?
«Avevamo capito che la situazione era tranquilla».
Sei del mattino, lei è andato sotto casa, in borghese.
«Abbiamo cambiato strategia dopo averla condivisa con il Gruppo intervento speciale dei carabinieri. Al padre ho mandato dei messaggi, ma per qualche minuto non mi ha risposto. Sentivo il telefono che squillava, poi abbiamo iniziato a chattare. Mi ha mandato la foto del bambino che dormiva. Abbiamo continuato a parlare: tornava sempre sugli stessi argomenti».
Finché?
«Mi ha mandato una foto di lui con il bambino che sorrideva».
Ore?
«10».
Che cosa gli ha detto?
«‘Quando esci, andiamo a prenderci un caffè insieme e uscite sorridenti così’. Mentre gli rispondevo, mi ha fatto una videochiamata. L’ho visto e ho capito che sarebbe andata bene».
Da cosa lo ha capito?
«Era rilassato. Aveva il bimbo in braccio, ci stava giocando. Sono anche sensazioni. Il bambino mi ha detto che stava bene, che il papà lo aveva fatto giocare. Al padre ho detto: ‘Tra mezz’ora ti chiamo, prepara il bambino’. Così è stato. Siamo stati il meno possibile invasivi».
Lei era sul pianerottolo (i colleghi nascosti), il papà ha aperto la porta con il bimbo in braccio. Si è commosso?
«Sì, dopo tante ore ero contento (il luogotenente si commuove ancora, ndr). Mi ero liberato di un peso. Si pensa a quello che è capitato altrove. Il papà ha sbagliato, tutti avevamo capito che era un padre disperato. Io non ero lì per giudicare, dovevo ascoltarlo. Poi, alla fine, si negozia in due».
Alle 10.30 è finita: la prima cosa che ha fatto?
«Sono andato a mangiare una brioche. Ero a digiuno da molto».
Si sente un eroe?
«No. Se mi fossi tuffato per salvare una persona che stava affogando, mi sarei detto: ‘Sono stato bravo’».
Invece?
«Sono stato un ingranaggio di una macchina perfetta. A Brescia ha davvero funzionato un sistema, è andato tutto come doveva andare, grazie all’impegno di tutti. Tutti sapevano quello che dovevano fare. Io mi sono solo dovuto sedere e prendere il telefono. Come è giusto che sia, i complimenti non sono stati solo per me, ma per l’Arma dei carabinieri».
Gatti ha portato a buon fine la negoziazione nel giorno del compleanno di suo padre Adriano scomparso molti anni fa. Il colonnello Giuliano Gerbo, comandante provinciale, ha inviato a Gatti e a sua moglie una torta con un cuore.
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