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TEATRO. L'INTERVISTA

Greggio: «Faccio ridere e ne sono orgoglioso»

In scena al Sociale di Soresina con ‘Una vita sullo schermo’

Nicola Arrigoni

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narrigoni@laprovinciacr.it

07 Marzo 2025 - 05:05

Greggio: «Faccio ridere e ne sono orgoglioso»

SORESINA - Non si sa da dove cominciare a raccontare la storia di Ezio Greggio, volto televisivo che ha fatto la storia del piccolo schermo, protagonista di trasmissioni cult, di fenomeni di costume, dei tanto criticati, ma anche seguitissimi cinepanettoni. Per fare ordine, o almeno tentarci, in quarant’anni di tv, cinema e storia italiana, Greggio sarà sabato 8 marzo 2025 (ore 21) al Sociale con lo spettacolo Una vita sullo schermo. L’appuntamento è inserito nella stagione SiFaSera curata da Bruno Tiberi.

Da dove parte la necessità di raccontarsi?
«Tutto ha inizio dal mio libro N. 1, pubblicato da Solferino, e dalle presentazioni che ho fatto in giro per l’Italia. Mi sono accorto, in maniera lampante, di quanto la gente abbia seguito il mio lavoro, ma soprattutto ho rinfrescato aneddoti, ricordi che pian piano emergevano nell’incontro con le persone. È stato allora che ho pensato che tutto questo poteva diventare anche uno spettacolo».

Così è nato Una vita sullo schermo?
«Ogni sera una festa, ogni sera mi stupisco dell’affetto della gente, ogni sera rivivo insieme agli spettatori una vita fra cinema e tv».

La sua carriera quando è iniziata?
«Era il 1972, avevo vent’anni e avevo accettato la proposta di Peppo Sacchi a partecipare all’avventura di TeleBiella, la prima tv libera in Italia che Sacchi chiamò A21Tv, in riferimento all’articolo della Costituzione italiana. Tentarono di farci chiudere, ma senza successo. Mi ricordo di aver detto a Silvio Berlusconi: ‘Senza di noi non ci sareste’. E lui mi rispose: ‘Ma come lavori qui non lavori da nessuna parte e poi hai una paga che nessuno ha’».

In realtà il debutto fu in Rai?
«Nel 1978 facevo parte de La sberla e poi di Tutto compreso di Giancarlo Nicotra. Ma la svolta è stata nel passaggio in Fininvest e con l’incontro con Antonio Ricci. È da 42 anni che lavoriamo insieme e non ci siamo ancora stancati l’uno dell’altro».

Beh, il fenomeno Drive In fu un caso unico, che ha segnato un’epoca.
«Furono cinque anni meravigliosi, dal 1983 al 1988. Fin dalla prima edizione capimmo che avevamo fatto il botto. C’era un cast pazzesco, oltre a me, Enrico Beruschi, l’amico di sempre Gianfranco D’Angelo, Giorgio Faletti. L’asta tosta era diventata un tormentone che ancora oggi chi viene a vedermi ricorda e non mancherà nello spettacolo. Non anticipo che cosa succede quando mostro il quadro di Teomondo Scrofalo. L’idea del recital è raccontare una vita passata in tv e sul grande schermo, riproponendo sketch, ma anche raccontando aneddoti, cose poco note. Mi rendo conto che ci sono persone che mi hanno seguito fin dal mio esordio e mi testimoniano un affetto incedibile. Una delle sere scorse è venuto a vedermi Beruschi, quando il pubblico l’ha visto, eravamo in un teatro da 1.500 posti, è partito un applauso interminabile. Enrico si è commosso e anche io».

E dopo Drive In è arrivata Striscia la notizia
«Ho fatto oltre 4.500 puntate di Striscia, una trasmissione davvero incredibile, un’invenzione geniale. In tutti questi anni abbiamo raccontato l’Italia e molto spesso detto quello che testate giornalistiche più importanti non avevano avuto il coraggio di dire. Col Gabibbo abbiamo raccontato l’Italia degli italiani, l’Italia che non funziona, ma anche l’Italia dei gesti generosi e speciali. Col Tapiro d’oro abbiamo messo in evidenza i personaggi del momento nel bene come nel male, esercitando il diritto di satira. Tutto merito di Antonio Ricci che è un vero genio».

Poi a Striscia è nata una coppia televisiva unica, composta da lei ed Enzo Iacchetti.
«Enzo è come un fratello per me, fra noi due c’è un feeling pazzesco. È dal 1988 e fino ad oggi che condividiamo quella scrivania. Abbiamo visto il Paese cambiare e anche per questo il sottotitolo del mio spettacolo parla di quarant’anni di Tv ma anche di storia d’Italia. Il feeling con Enzino è unico, ormai andiamo in automatico, ci conosciamo talmente bene che tutto arriva spontaneo e naturale».

Enzo Iacchetti è di Castelleone, ma voi avete tenuto a battesimo anche un’altra cremonese, Roberta Lanfranchi.
«Le Velineee come le introducevo io, con tono alla Gassman, una parodia che Vittorio mi concesse con grande generosità. Roberta è una grande professionista. Ha saputo mettere a frutto non solo le sue doti, ma anche la visibilità che in quegli anni il ruolo di Velina dava alle ragazze, non senza polemiche e critiche. Roberta è andata per la sua strada, ha dimostrato di essere una ragazza di talento, con la testa sulle spalle, capace di fare le scelte giuste e di valorizzare la propria professionalità. Credo che Striscia sia anche questo: una meravigliosa esperienza umana e di lavoro, di professionalità. Roberta Lanfranchi ne è un esempio».

Non solo televisione per Ezio Greggio, lei è uno dei volti del fenomeno cinepanettone, tanto criticato dai sofisticati, ma che oggi è un documento importante della storia del costume italiano fra gli anni Ottanta e Novanta.
«Tutto è partito con Yuppies! di Carlo Vanzina, da lì il cinema è diventato la mia seconda casa. Credo che Vanzina come Enrico Oldoni, spaziando da Montecarlo Gran Casinò a Vacanze di Natale, ma anche al mio Il silenzio dei prosciutti abbiano raccontato un’Italia del benessere e del consumismo, un poco sbruffona e molto comica, abbiano testimoniato un’epoca. Credo che per questo periodo e per chi ha frequentato questa comicità un po’ sfacciata accada quello che è accaduto con Totò, fatte le debite differenze, ovvero la comicità fatica ad essere apprezzata nel suo valore, lo si capisce solo col tempo».

A tal punto che lei ha vinto il Nastro d’argento per il film Il papà di Giovanna di Pupi Avati in un ruolo drammatico. Far ridere non porta premi?
«Forse è così, almeno in Italia. Certo Pupi Avati mi ha fatto un grande regalo, mi ha dato un ruolo che mi ha potuto far apprezzare come attore a tutto tondo, anche se io rimango, orgogliosamente, un comico».

Pupi Avati santo subito. È il regista che nobilita i comici, basti pensare a Regalo di Natale con Diego Abatantuono in un ruolo drammatico?
«Può essere un’idea, non appena ho occasione di rivedere Pupi glielo dico. Mi pare una bella idea, eleggerlo a santo protettore dei comici».

Come ha scoperto la sua comicità?
«Beh da ragazzino, a scuola, facendo ridere i compagni. Ma la passione per il cinema è nata in gita scolastica. Eravamo a Parigi, davanti al Sacré Coeur. Stavano girando un film, io mi sono fermato, sul set c’era Jean-Paul Belmondo, il film era L’animal. Non mi sono più mosso, ho lasciato andare i miei compagni e sono rimasto lì rapito, fino a che non ho avuto modo di stringere la mano a Belmondo. Parecchi anni dopo sono diventato amico del figlio e ho avuto modo di incontrare Belmondo, gli ho raccontato l’episodio. A lui devo la mia passione per il cinema e anche il mestiere d’attore. Poi ci sono stati gli incontri e l’amicizia con Walter Chiari, Gigi Proietti, Cochi e Renato e via 40 e più di carriera e di amore per lo spettacolo. Questo cerco di fare in Una vita sullo schermo, raccontare un po’ di me e incontrare quanti hanno condiviso il mio lavoro».

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