L'ANALISI
LA STORIA
30 Dicembre 2022 - 05:20
Monfardini al campo base Everest
CREMONA - Arrampicare non è il suo mestiere, è invece una passione che brucia e che ha radici profonde e lontane. Eppure non ha esitato a rinunciare all’impresa non appena realizzati, a oltre sei mila metri di altitudine, nella catena dell’Himalaya, quali erano i confini che delimitano l’impresa sportiva, il risultato e l’ incoscienza. Ha pensato ai suoi figli, alla famiglia e non ha avuto dubbi, o ripensamenti, o peggio rimpianti. A oltre 6 mila metri di altezza, a pochi passi dalla conquista della cima dell’Ama Dablam, la dea madre con la collana in lingua nepalese, l’imprenditore cremonese Stefano Monfardini, patron della Ferlam, a 62 anni ha deciso che non era il caso di sfidare la montagna, come tante volte aveva visto fare con avventatezza dai protagonisti del cosiddetto «turismo alpinistico».
No risk no fun, se non c’è rischio non c’è divertimento scrive sul suo profilo Instagram: sull’Ama Dablam detta anche il «Cervino dell’Himalaya», una piramide di 6.815 metri che si trova nella regione nepalese del Khumbu Himal, un po’ di rischio c’è stato e l’obiettivo della cima non è stato raggiunto a differenza del compagno di avventura, Silvestro Franchini, scalatore professionista, guida alpina e maestro di sci di Madonna di Campiglio che ha raggiunto la cima ed è tornato al campo base in giornata con una performance strepitosa, di notte e in condizioni meteo avverse, forte anche della sua giovane età, i quasi 30 anni che lo separano dall’«allievo».
Poco male. Il divertimento non è comunque mancato insieme all’entusiasmo e alla soddisfazione di aver unito una spedizione in alta montagna — impegnativa per Monfardini che vanta un curriculum sportivo di tutto rispetto — ad un «viaggio» culturale e personale fuori dalle consuete zone di comfort. La spedizione è durata un mese secco, tra aprile e maggio, preceduta da una lunga preparazione fisica, mentale e ambientale.
«In Nepal è difficile prevedere il meteo, al mattino ti svegli e la giornata è fantastica, il pomeriggio ti blocca una bufera di neve. Una escursione termica pazzesca che mette a dura prova. E fatto capire, tra l’altro, l’abissale differenza fra un appassionato uomo di sport, io, e la consapevolezza di un professionista, Franchini. E ad un certo punto, quando mi sono trovato a dover tenere a bada il richiamo irrefrenabile dell’ascensione, quella «febbre verticale» che ti spinge a superare anche i tuoi limiti, ho trovato la forza ma soprattutto la lucidità di rinunciare. Il mio obiettivo — prosegue — non era andare a sfidare la montagna e me stesso, piuttosto vivere un’ esperienza a contatto con un popolo meraviglioso. Sono un po’ avventato, lo riconosco, ma non del tutto incosciente. Nonostante mi sentissi molto in forma e preparato, già oltre i 4 mila metri faticavo a dormire. Il programma prevedeva tappe giornaliere di circa 40 chilometri con destinazione il campo base di Island Peak, a 6.160 metri, primo nostro obiettivo alpinistico in preparazione della più impegnativa cima dell’Ama Dablam, nella lingua locale la dea madre con la collana, a causa della presenza di un serracco sulla cima a forma di diadema».
È la montagna più cara alla civiltà sherpa: domina la valle, svetta imponente e ripida di fronte al monastero buddista di Temboche facendo passare in secondo piano tutte le altre cime, Everest compreso.
«Era nevicato molto, le difficoltà tecniche si erano inasprite, iniziavo a sentirmi anche a sentirmi un peso per Silvestro. E neppure volevo che rinunciasse a causa mia. Non ho tentato la vetta, ma ho la soddisfazione di aver raggiunto i 5.100 metri del campo base al primo tentativo e questo mi basta. Non avverto alcun senso di sconfitta. L’importante è provarci, sempre».
L’aspetto sportivo si è sposato, per i due scalatori, con quello di un’ esperienza, sia pure di un mese, fuori dalla cosiddetta comfort zone, lo stile di vita, le abitudini, le famiglie in un ambiente estremamente ostile a causa, principalmente, del clima e dell’altitudine che in un mese ha oscillato tra i 5 mila e i 6 mila metri e dove l’aspetto tecnico costituisce solo un dettaglio della quotidianità.
«La popolazione è meravigliosa — spiega ancora Monfardini — convivono in pace buddisti e induisti e si aiutano a vicenda, sono pazienti, generosi, accoglienti. Non conoscono il riscaldamento se non quello prodotto da grandi stufe alimentate con lo sterco dello yak essicato al sole. L’alimentazione è poverissima composta da riso, patate, pollo, latte e burro che mescolano in pietanze dal gusto molto forte. Le mucche non si toccano. Qui tutto è autoprodotto e non c’è nulla di importazione. Bevono acqua calda, scaldata sulle stufe, privandosene per offrirla agli ospiti. Hanno una forza immane, soprattutto le donne, e non ti abbandonano mai durante le salite, neppure di notte, quando è buio pesto».
Il portatore è un mestiere tra i più diffusi in Nepal che offre poche alternative anche a chi possiede un’istruzione. Il denaro che guadagnano ogni primavera è sufficiente a comprare una casa nel proprio villaggio. Senza l’aiuto degli sherpa, i portatori di etnia locale, nessuno sarebbe in grado di affrontare la scalata.
«Lungo i sentieri dei 4 mila metri si vedono decine di donne e ragazzi che portano sulle spalle un peso superiore al loro. Spesso hanno una fascia che passa sulla fronte e regge una gerla con cui portano pesi che noi non riusciremmo ad alzare da terra. La nostra sherpa ne portava due che superavo i cento chilogrammi e incedeva con passi corti, cadenzati, con una respirazione perfetta che non va mai in ipossia».
Abitudini e tradizioni di terre lontane, sono proprio queste le cose «rimaste dentro di noi e che siamo desiderosi di trasmettere a chi avrà la pazienza di ascoltarci — chiude Monfardini — . È stato un viaggio dinamico, entusiasmante, ogni giorno ci siamo mossi, fatto piccole e grandi conquiste, conosciuto persone, visitato monasteri e villaggi, bevuto acqua calda in compagnia. Il Nepal mi mancherà, ma non vedevo l’ora di tornate e rivedere i miei bambini. Il ringraziamento più grande va naturalmente alle nostre famiglie che da lontano ci hanno sostenuto. In trepida attesa di notizie, fiduciose anche nei lunghi momenti di silenzio che la montagna ha riservato, a noi e a loro».
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