L'ANALISI
CREMONESI SENZA FRONTIERE
07 Ottobre 2025 - 05:10
CREMONA - Estesa, incontrollabile e allegra. Gli è sembrata così, l’Africa, appena arrivato. Pietro Emiliani, cremonese, 25 anni, laureato in Medicina a Ferrara lo scorso giugno; per tutti — a Cremona come a Ferrara — è semplicemente ‘Babo’.
Il 26 agosto arriva in Burundi, nella città di Ngozi. Centro periferico, eppure è la terza città più grande del piccolo stato africano. Circa 120mila abitanti. Strade rocciose e panorami collinari. «Non è l’Africa del ‘Re Leone’» racconta.
Con la sua ragazza, Chiara (anch’essa fresca di laurea in Medicina), sono stati ospiti di una dottoressa italiana in pensione, fino alla scorsa settimana, quando sono tornati in Italia. Babo e Chiara coltivavano da tempo la vocazione missionaria che li aveva portati a sognare l’Africa, dove la medicina non sempre è al passo coi tempi: gli ospedali sono sporchi, gli strumenti sembrano appartenere a un altro secolo.
La vita in ospedale, a Ngozi, non è per nulla semplice. Una sfida immensa, che vede i due ragazzi catapultati in un mondo tutto diverso, ad affrontare rapporti umani inediti e situazioni mediche complesse, delle quali hanno potuto fare esperienza diretta. Entrambi ricordano bene la gratitudine di una madre che, dopo la nascita di suo figlio, li aveva ringraziati così affettuosamente, affidandoli alla benedizione di Dio. «Persone che non rivedremo mai più. Ma quella gratitudine ripagava tutto il nostro lavoro».
Cinquecento posti letto, senza reparti veri e propri, tranne chirurgia, maternità e pronto soccorso. Babo e Chiara lavoravano nel reparto maternità. Il Bloc Maternité. Per le mamme e i bambini sotto i cinque anni, in Burundi, vige la gratuità delle cure. Ma i costi sono alti e le mamme, appena nati i bambini, vengono dimesse.
«In Italia ci lamentiamo spesso dei servizi e delle strutture, ma siamo privilegiati — commenta Emiliani —: là si lavora con ago e filo, in chirurgia, in Italia con i robot. È stata una sfida. Ho provato grande ammirazione per i medici africani: non hanno potuto studiare come i medici italiani, ma con le poche risorse che hanno a disposizione fanno miracoli».
Un contesto non facile. Per strada, a Pietro urlano ‘musungo’. Gli danno del ‘bianco’, in senso spregiativo. La ferita coloniale è ancora aperta. Il Burundi, del resto, ancora risente le ferite dell’occupazione belga e delle guerre civili.
«Sono orgogliosissimi. Non sempre era facile aiutarli. Era necessario instaurare con loro rapporti di fiducia, trasmettere il nostro affetto». L’hanno imparato da un’altra volontaria italiana, Maria Chiara. Ha sposato un burundese e con lui ha avuto tre bambini. Il più piccolo ha cinque anni. Pietro racconta che di lei si fidavano tutti, che le volevano bene. «Attraverso questo rapporto umano stretto — continua —, Maria Chiara riusciva a vincere la loro testardaggine, e i burundesi stessi andavano per primi a chiederle consigli».
Tante esperienze formative, non sempre facili. Babo ricorda una donna, Debora, in travaglio. «Il nostro turno — spiega — era finito da quaranta minuti. La lasciammo all’ostetrico del turno successivo. Il mattino seguente, Debora era ancora lì. In travaglio da quasi 24 ore. L’ostetrico l’aveva ignorata e lei ne era molto risentita. Soffriva moltissimo e non voleva farsi visitare. Nel reparto, ostetriche e infermiere sono accorse nella sala travaglio, scossa non dall’incuria della situazione quanto dal comportamento della donna. Finalmente, un’ostetrica ha mandato via tutti, tranne me e Chiara, e un infermiere, Philibert, che con calma l’ha guardata negli occhi e le ha spiegato che ascoltare i medici era l’unico modo per salvare la vita del suo bambino».
Debora si convince e nel giro di pochi minuti dà alla luce suo figlio. «Spesso abbiamo assistito a un tipo di medicina molto ‘impositivo’, ma questa situazione ha dimostrato come l’unica medicina veramente efficace è la fiducia dei pazienti, che si conquista solo con uno sguardo umano».
Babo ricorda le parole di Sant’Agostino: «Nelle nostre mani i libri, nei nostri occhi i fatti».
Ogni domenica, Babo inviava ad amici e parenti un resoconto della settimana. Oscilla tra l’entusiasmo per la grande umanità trovata in quel piccolo angolo di terra e le riflessioni sulle fatiche fisiche ed emotive che questa esperienza gli consegna giorno per giorno.
Racconta la storia del bambino cui Chiara aveva regalato l’elastico per capelli. Lui si era tolto tutti gli altri braccialetti che portava ai polsi e aveva tenuto solo l’elastico al polso. Emozionato e riconoscente: «Non avere niente e avere più di chi ha tutto. Dopo aver visto tutta quella povertà, non si può restare indifferenti. Siamo privilegiati. Sì — dice — è una frase fatta, ma questa esperienza mi ha educato a cosa sia la miseria e a quanto in questa miseria si possa spesso vedere l’autentica felicità. Nei bambini — tantissimi bambini, tutti poverissimi — ho sempre visto la felicità. Forse la felicità non è preclusa a chi non ha niente».
Copyright La Provincia di Cremona © 2012 Tutti i diritti riservati
P.Iva 00111740197 - via delle Industrie, 2 - 26100 Cremona
Testata registrata presso il Tribunale di Cremona n. 469 - 23/02/2012
Server Provider: OVH s.r.l. Capo redattore responsabile: Paolo Gualandris