L'ANALISI
03 Giugno 2024 - 17:09
CREMONA - La canzone triste del grande Ivan Graziani si chiama Firenze, la nostra invece si chiama Venezia. È triste aver visto la serie A affondare in laguna, è triste anche non riuscire a scacciare l’impressione di non essersela giocata meglio che si poteva. E non solo nella finale. Certo, la partenza a handicap perché un’altra volta si era incominciato la stagione con l’allenatore sbagliato. Certo, gli sprechi ingiustificati che hanno fatto scappare il secondo posto proprio quando la vittoria sul Como sembrava aver spaccato la classifica.
Certo, quelli che dovevano fare la differenza e non l’hanno fatta; come Dennis Johnsen che col Venezia ha dato due volte buca per un affaticamento, e sarei curioso di sapere come esattamente si è affaticato, non credo giocando a pallone dato che da quando è arrivato da noi a pallone ci ha giocato pochino; o come Franco Vazquez, che ha usato con troppa avarizia quello Stradivari che ha nella scarpa sinistra, e sul quale Stroppa ha insistito a proposito e a sproposito, non ultimo nell’ultima partita.
E proprio Stroppa, che come un apprendista stregone qualcuna ne ha azzeccata ma troppe ne ha sballate, compresa proprio quella più importante. Mettere Buonaiuto, che è tante cose ma non un piè veloce, nella zona di competenza di Busio che è il filo scoperto dell’impianto elettrico veneziano, vuol dire andare a cercarsi l’occasione per essere folgorati, ed è quello che è successo con inesorabile puntualità a metà del primo tempo. Sia Franco che Cristian potevano trovare un impiego più logico nell’ultima mezzora, quando il Venezia ha mostrato la corda sul piano delle energie, piuttosto che nel primo tempo in cui la rumba veneziana infuriava a pieno ritmo.
In fondo cos’era tutta quella fretta, sarebbe bastato un golletto, e in una partita così zeppa di botte date e prese il pugno del ko poteva saltare fuori fino all’ultimo secondo. Sarebbe bastato, a condizione di non prenderne. E invece il gol lo si è beccato in modo colpevole, vanificando l’ennesima prova di solidità del reparto difensivo, vera colonna portante della stagione grigiorossa, e spazzando via le rughe da stress dalle facce veneziane. Perdere la finale per un gol non è un disonore, però è un accidente che ci si poteva risparmiare.
Non è che la Cremo abbia giocato particolarmente male, ma per fare l’impresa doveva giocare particolarmente bene, e non ce l’ha fatta. È la solita vecchia storia, se non fai come si deve le cose normali, poi ti tocca provare a camminare sulle acque. E la laguna di Venezia non è il lago di Tiberiade. È anche mancato qualcosa al tiro, e non è una novità, nessun grigiorosso ha avuto la suerte, vedi Sernicola, o la freddezza, vedi il Casta, o la rapacità nelle tante mischie del secondo tempo, che ci sarebbero volute per bucare Joronen. Il quale non ha avuto bisogno di fare miracoli, dato che i lui e i suoi compagni hanno fatto come si deve le cose normali, tipo gettarsi su ogni pallone come se fosse quello della vita e metterci la giusta dose di carogneria.
Inutile adesso pescare la luna nel pozzo dei rimpianti, si resta in B in compagnia di una canzone triste che si chiama Venezia, ma si potrebbe anche chiamare Piacenza, Bolzano, e anche Zini. La tristezza ha tanti nomi, così tanti che sarà difficile mandarla via. Per farlo, tocca aspettare quando il pallone tornerà a rotolare. Per ora, non so a te ma a me di canzonette è passata la voglia, quindi stacco la spina al jukebox.
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