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‘Perduto è questo mare’: un’investigazione nel regno dei padri

Romanzo con elementi autobiografici di Elisabetta Rasy, l’amico La Capria come Virgilio

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

04 Giugno 2025 - 05:25

CREMONA - Tutto nasce da un sogno enigmatico di tanti anni fa. «Ero in fuga e portavo sulle spalle il grande scrittore Raffaele La Capria, amico e maestro. Naturalmente questa visione ha richiamato l’iconografia di Enea che lascia Troia col padre Anchise sulle spalle. Un sogno al quale non riuscivo a dare un significato, che però mi ha accompagnato negli anni fino a che ha messo in moto il desiderio di scrivere questa storia». Nasce così ‘Perduto è questo mare’ di Elisabetta Rasy, candidato al Premio Strega 2025. Un romanzo narrato in prima persona con elementi fortemente autobiografici, una riflessione su due persone importanti, un padre biologico e l’altro amico e faro intellettuale, padre spirituale si potrebbe dire. La scrittrice ne parla nella videointervista online da oggi.

IL PASSATO TERRA STRANIERA

Siamo a Napoli, negli anni Cinquanta, una città tanto piena di luce da sembrare fatata, ma anche devastata dalla guerra. Da lì, all’improvviso, una ragazzina viene portata via, lasciando per sempre il padre nell’ombra di una casa elegante e fatiscente. Lei crede di dimenticarlo ma, molti decenni dopo, la morte di un amico e maestro amato, lo scrittore La Capria, fa riemergere dal fondo della memoria l’immagine di lui. Della stessa generazione, i due hanno avuto un diverso destino: l’uno realizzato nei suoi libri, l’altro murato nella sua solitudine. Eppure entrambi sono stati ammaliati e respinti da quella città, scossi e feriti da intimi segreti.

Così sullo sfondo dei loro desideri e tormenti inizia un viaggio nella terra straniera del passato, e si snoda la storia di quella ragazzina. Perduto è questo mare è un romanzo profondo ed emozionante su un difficile affetto filiale e su un potente sentimento d’amicizia, un’immersione nel regno remoto dei padri, costellato di amori intensi, abbandoni, allegrie e malinconie, che rimanda a echi lontani: da Enea sceso negli Inferi per cercare Anchise, a Kafka con la sua lettera al genitore carica di risentimento. Un libro in cui esperienze e ricordi riaffiorano dolci ma taglienti.

«Mio padre, e La Capria sono della stessa generazione, figli dello stesso ambiente, quello di una borghesia sospesa tra vecchio e nuovo, e soprattutto, molto spiazzata dopo la seconda guerra mondiale. Il libro si occupa dei sentimenti che mi hanno legato a loro. Anzitutto quello molto forte nell’infanzia con mio padre, seguito da una separazione traumatica che la bambina che sono stata aveva cercato di coprire facendo finta di non soffrire e stendendo una sorta di coltre di oblio andato avanti per lunghi anni. E poi c’è il sentimento per lo scrittore, una sorta di Virgilio sulla strada della memoria».

Questo è il tema del romanzo che però vive non solo dei sentimenti della scrittrice, «ma di una sorta di investigazione del regno dei padri. Un viaggio nella relazione padri-figli e in modo particolare il padre e la figlia che io sono stata nella quale poi entrano tanti altri personaggi». Attorno ai tre protagonisti c’è una costellazione umana, la madre della narratrice, l’attrice moglie di La Capria, le amiche di un tempo della ragazza con le loro storie sentimentali, nascono così tanti piccoli romanzi di formazione. Si sente lungo tutto il libro l’angoscia per Napoli, città amata da tutti e tre la cui colonna sonora potrebbe essere la canzone di Pino Daniele ‘Napule è’, «mille culture, mille paure, nu sole amaro, na’ carta sporca e nisciuno se ne importa».

NAPOLI, LA GRANDE FUGA

Conferma Rasy: «Una città con grandi possibilità, ma che comunque rischia di franare su se stessa. La Napoli che racconto non è quella rinata di oggi, ma del lungo secondo dopoguerra, vittima di una sorta di pernicioso immobilismo sociale nel quale prospera la speculazione edilizia che distrugge buona parte del territorio e crea mostruose corruzioni nell’interazione tra politica e affari mentre la malavita si organizza». Una città da cui fuggire. «Non si è trattato di che un’emigrazione operaia, ma intellettuale, di cui fa parte lo stesso La Capria: un certo medio riflessivo di professionisti, avvocati, giornalisti, scrittori, se ne va non trovando modo di esprimersi».

Chi rimane, come il padre della voce narrante, ne patisce veramente i pericoli e i disastri. E infatti, «si perde nelle sabbie mobili del sonno, uomo fragile e sgualcito», mentre in passato era stato vigoroso e vitale. Torniamo al sogno. In certe opere Anchise, benché anziano, è vigoroso, indica la strada, in altre è sconfitto anche fisicamente che si lascia trasportare. «Effettivamente ci sono questi due aspetti, però non è che il padre sia la figura perdente e La Capria il vincente. Non amo queste categorizzazioni che invece imperversano nella nostra società piuttosto crudele. Le vite sono fatte di tanti strati, sta all’occhio di chi guarda raccontarli. Di La Capria evidenzio anche la malinconia, mentre del padre racconto i lati solari».

LO STILE DELL'ANATRA

In questo senso i romanzi «sono importanti perché riflettono sulla condizione umana che è in chiaroscuro. Se si va a scavare, si scopre che tutto è più complicato. La letteratura parla proprio di questo - chiosa Rasy -. Aiuta a capire la realtà, a renderla più vera, perché a volte siamo storditi da pregiudizi, o dalla fretta. La letteratura alza un velo e spiega la complessità. La Capria in questo è stato un maestro. Parlava spesso dello stile dell’anatra: uno scrittore deve lavorare in profondità, come fa l’anatra con le sue zampette, però quando ‘corre’ sul pelo dell’acqua si vede una superficie liscia. Insisteva molto su questa superficie liscia che la prosa deve avere, una semplicità che richiede molto lavoro allo scrittore ma che deve essere una strada percorribile per il lettore».

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