L'ANALISI
06 Settembre 2023 - 05:25
CREMONA - È romanzo storico e al contempo di formazione e di avventura. Con ‘Piero fa la Merica', scritto alla sua maniera, in dialetto veneto nei dialoghi e nell’esergo che introduce ogni capitolo e sempre tratto da lettere di migranti, Paolo Malaguti compie un triplo salto mortale. Crea una storia che colpisce i sentimenti e il cuore del lettore, ma suscita anche la sua indignazione per i fatti (veri) raccontati. Spiega: «Storico perché è ambientato a fine Ottocento e cerca di inquadrare il fenomeno dell’emigrazione di massa italiana verso il sud America; di formazione perché il protagonista è un ragazzo di 15 anni che deve seguire suo padre assieme a una sorella e al fratellino più piccolo in Brasile e quindi e quindi è costretto a crescere facendo i conti prima con la durezza delle migrazione e poi anche con le sorprese che troverà nel nuovo mondo; d’avventura perché quando sei costretto a andar via di casa devi rapportarti al nuovo, allo sconosciuto. Soprattutto è stata un’avventura per quanti sono andati a ricavarsi un campo da coltivare in mezzo al mato, la foresta brasiliana, purtroppo senza sapere che era abitata dai nativi con cui hanno dovuto avere a che fare anche in maniera violenta». Malaguti, vincitore del Premio Rigoni Stern con ‘Il Moro della cima’, parla della sua ultima fatica letteraria con Paolo Gualandris nella rubrica ‘Tre minuti un libro’.
Piero è un ‘bisnente’, cioè uno di coloro che hanno due volte... niente, i più poveri tra i poveri. Di cognome fa Zanata, ma la sua famiglia appartiene alla ‘stirpe’ dei Gevori, lepri in veneto, perché «come tutte le genti povere , anche la sua aveva la disgrazia di avere tantissimi figli. Tante bocche da sfamare e niente con cui farlo». Nello specifico, in provincia di Treviso a fine Ottocento c’è un’emergenza sociale enorme perché questi miserabili vengono proprio messi ai margini anche da leggi particolarmente severe. «Unica via la fuga - come spiega Malaguti -. Per dare solo un dato: uno di questi paesi del Montello in una quindicina d’anni perde l’80 per cento di residenti, che partono proprio per andare per andare in Brasile. Erano così poveri che, a consolazione dei bambini morti, si diceva che almeno nel regno dei cieli non si muore di fame».
Piero nasce e vive i suoi primi 15 anni ai margini del bosco del Montello, l’antica riserva di legna della Serenissima. Abita in una casa che sta in piedi per miracolo, mangia poco e non possiede nulla. Come se non bastasse, la cattiva sorte si accanisce su di loro. Da qualche tempo, giù al paese, si dice che alla Merica regalino la terra a chi ha voglia di lavorare. Dopo l’ennesima ingiustizia, per i Gevori mettersi in viaggio in cerca di fortuna non è più una scelta, ma l’unica salvezza. Eppure, quando arrivano in Brasile insieme alla marea di italiani in fuga dalla miseria, non trovano il paradiso promesso.
Lì in mezzo al nulla bisogna farsi spazio, abbattere gli alberi per costruire tutto da zero, strappare la terra al mato, tra le minacce sconosciute della foresta vergine, lontani da tutto e da tutti, senza alcuna possibilità di tornare indietro. Piero aiuta il padre e la sorella a mandare avanti il fondo, tira su case, semina granturco e fagioli: arriva alla sera con le ossa rotte, ma nel frattempo cresce. E crescendo impara due cose: che per morire basta il morso di un serpente, e che il primo amore è più pericoloso di tutte le bestie feroci messe insieme. Perché perfino tuo padre te lo può rubare. E poi c’è la foresta: «Durante tutto il giorno intorno a loro pareva silenziosa, ora invece, ancora più delle notti precedenti, sembra che ogni bestia voglia fare sentire la sua voce, quasi a ribadire che i coloni sono degli intrusi. È una sarabanda che non conosce tregua: stridi, ululati, ciangottii, fischi acuti e gravi, modulazioni canore che paiono quasi umane e gemiti lugubri di fantasmi o spiriti inquieti».
Ce n’è da fare venire i brividi a un ragazzino. Nel groviglio del mato, oltretutto, sarà lui a scoprire quello che nessuno aveva rivelato ai migranti: la ‘loro’ terra appartiene ad altri, i nativi che vi abitano da sempre e dalla quale verranno sgombrati a fucilate. Con felicità narrativa e una lingua che ha i colori del veneto, dell’italiano e del portoghese, Malaguti proietta il lettore in un mondo lontano e avventuroso, fatto di fatica e piante esotiche, febbre dell’oro e tradizioni da custodire. Piero è un ragazzino che pensa, non è colto, non ha studiato, ma capisce che «nella vita non resta che far torto o patirlo», come dice a un certo punto, ma comprende anche che la violenza è una brutta bestia e la risparmia al fratellino quando devono andare per nidi, a uccidere pulcini per mangiarli con la polenta.
«È una personalità in formazione, ma con precisi valori. Mi sono molto affezionato a Piero, lo confesso, più che ad altri personaggi proprio per come è venuto fuori dalla pagina. Fa parte di quella classe contadina semi analfabeta, però è un adolescente che sta crescendo. Credo che chiunque abbia attraversato o stia attraversando quell’età si sia posto o si ponga delle domande, è un’età carica di dubbi di curiosità anche di forte senso della giustizia. Cioè vedi le ingiustizie e magari le soffri più di quando diventi adulto. È proprio per questo che ho scelto Piero: sapevo che storia avrei narrato, sapevo che avrei raccontato anche delle ingiustizie avvenute davvero delle quali sono stati responsabili anche i nostri emigranti. Piero mi serviva proprio per dare l’occhio pulito di un ragazzo che sa osservare e sa porsi domande. Poi le risposte, si sa, non arrivano sempre al momento giusto. Però lui quella decisiva se la dà alla fine». E sarà la sua salvezza.
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