L'ANALISI
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18 Settembre 2025 - 19:36
CREMONA - L’Europa, «cosiddetta» Unione, è tra l’incudine e il martello di sfide senza precedenti: il fronte aperto a due passi dal confine orientale, l’escalation tra Israele e Hamas sull’altra costa del Mediterraneo, il difficile braccio di ferro con l’amministrazione statunitense sul fronte commerciale. Una serie di tavoli in cui l’Ue ha mostrato un fianco scoperto in termini di reattività, che si aggiungono al difficile cammino verso la transizione verde.
È forse arrivato il momento di fare davvero una scommessa sull’Europa? Questi i temi discussi nel forum di questa settimana con l’eurodeputato Massimiliano Salini (FI), ospitato dalla sede del quotidiano La Provincia di Cremona e Crema. Il messaggio finale: «Possa l’Europa davvero essere unita». Ma il cammino costerà qualche sacrificio.
L’Unione si sta misurando in un braccio di ferro commerciale con gli USA. Come valutare la posizione attuale?
«Quando si approccia il problema dei dazi, bisogna considerare il fenomeno nella sua progressione, non semplicemente come una fotografia. Dobbiamo premettere che, nel caso dei dazi, stiamo prendendo in considerazione una partita che che non è soltanto economica, come si potrebbe pensare ad un primo sguardo. È anche politica. I dazi annunciati da Trump sono stati sfruttati dagli Stati Uniti come manovra ‘muscolare’, come ricatto economico finalizzato a portare avanti e vincere una partita che, invece, è politica e di interesse prettamente americano. Per esemplificare, possiamo concepirlo come una sorta di ‘oggetto contundente’ lanciato per mostrare i risultati del programma trumpiano nell’immediato. Per quanto riguarda l’Europa, per la natura stessa della situazione ci troviamo in una fase in cui è difficile prevedere quale piega prenderà lo scenario in futuro. Quel che finora si può dire è che l’Unione europea ha retto il colpo, anche se fino ad un certo punto. La manifattura europea ha un valore insostituibile, ha forza ed è caratterizzata da un’inequivocabile unicità. Allo stesso tempo, è evidente che, vista l’importanza di un partner commerciale storico come gli Stati Uniti in termini di import ed export, l’Europa si è dovuta muovere con cautela. Sia chiaro: sarebbe stato impensabile intraprendere una guerra commerciale con gli Stati Uniti».
Quali conseguenze è possibile prospettare per gli Stati Uniti stessi?
«È probabile che sul lungo termine i dazi abbiano un effetto boomerang, in particolare considerando che gli Usa sono un Paese con un debito pubblico estremamente alto e un deficit in crescita. Generalmente all’introduzione di dazi sui prodotti fa seguito un fenomeno inflativo, che comporta in maniera consequenziale l’aumento dei tassi di interesse. Si può dire, comunque, che il colpo di Trump in ultima analisi sia riuscito. L’Europa ne è uscita con ferite, ma non abbattuta. Nondimeno, pensando al futuro e alle sfide che ci attendono, deve saper dimostrare maggiore forza e dignità».
Quali misure adottare per poter rilanciare la partita?
«I dazi sono il frutto di una capricciosa arroganza antipolitica. Un colpo per l’occidente intero, che però deve saper dare il giusto peso al fenomeno. Ricordiamo che il presidente Trump è stato eletto democraticamente; a noi deve interessare non solo il voto in sé, ma sono motivo di preoccupazione anche le cause stesse del voto. La questione va affrontata con umiltà, ma soprattutto da una prospettiva che sia davvero unitaria. Il che, come è evidente, non riguarda solamente i dazi. Non si può negarlo: l’Europa, anche considerando partite strettamente politiche, non è oggi ‘unita’ come dovrebbe. Uso appositamente questo termine, ‘unita’. Le conseguenze sono evidenti sul fronte geopolitico. Bruxelles ha avuto un ruolo chiaro, per esempio, nel proporre soluzioni pacifiche in scenari di crisi come quello ucraino. Non lo stesso, invece, è avvenuto per la crisi in atto in medio oriente, sul cui fronte la politica estera dell’Unione è rimasta poco propositiva. Le misure di intervento potevano essere molte».
Un esempio concreto?
«Se il motivo dell’aggressione è il disarmo completo di Hamas, sarebbe stato sufficiente proporre una forza di interposizione, come quella italiana attualmente di stanza in Libano. Necessariamente la guida sarebbe affidata alle Nazioni Unite, che si preoccuperebbero di portare avanti l’obiettivo. Disarmare Hamas è assolutamente giusto, ma deve farlo chi ha diritto di farlo. Anche se le organizzazioni internazionali stanno attraversando un momento di crisi, bisogna comunque credere nel loro valore. Di queste fa parte anche l’Europa. Che invece, nel dibattito internazionale, si comporta da ancella delle grandi potenze».
Da dove si potrebbe partire per giocare un ruolo di primo piano nel contesto geopolitico?
«Le fragilità sono molte, e sono strutturali. Di fatto, impediscono di avere un peso decisivo sullo scacchiere internazionale. Il primo ostacolo è rappresentato dalla presenza di una governance che chiede l’unanimità sulla maggior parte delle scelte strategiche, producendo gli inevitabili rallentamenti. Ne consegue che, di fronte all’apparente immobilismo della macchina, le tendenze euroscettiche dilagano. Inoltre, una strategia chiave per recuperare un progetto unitario sarebbe l’implementazione di un bilancio europeo più sostanzioso: quello dell’Unione si aggira intorno ai 200 miliardi di euro. Impensabile. Basta confrontarlo con quello italiano, che è di circa 900 miliardi. Siamo in una situazione in cui l’Europa dirige gli investimenti dei singoli Stati pur essendo priva di una cassa importante. In altri termini, dà direttive su come i soldi degli altri debbano essere spesi. Come possiamo pensare di proseguire su questa linea? L’Europa ha bisogno che i singoli Stati membri rinuncino ad una parte della loro sovranità nazionale (pensando a temi come quello attualissimo della difesa), e la trasferiscano anche in termini di risorse all’Unione. In questo campo si contraddice chi approccia il tema in maniera neonazionalistica ed euroscettica: ci sono governi europei che rifiutano l’idea di rinforzare il bilancio dell’Unione, ma poi si lamentano delle decisioni che vengono prese. In questo quadro, l’Europa si vede depotenziata, il che è grave quando si gioca una partita cruciale come quella dei dazi»
Quali altri scenari richiedono un’Europa più unita?
«Pensando, ancora, alla guerra in Ucraina, siamo di fronte ad una tragedia che coinvolge l’intera Europa. Un fenomeno che è figlio di una pretesa dispotica da parte della Russia, più temibile in questo senso rispetto alla politica americana dei dazi. L’obiettivo di Trump non è politico, bensì economico. Quello di Putin, invece, si inserisce nel quadro di velleità imperialistiche.
Alla ‘disunione dell’Unione’ contribuisce anche la crisi di Francia e Germania. Per intenderci: se il bilancio non è ancora comune, è perché la Germania non l’ha voluto. Se non abbiamo una difesa comune è soprattutto dovuto ad una posizione della Francia».
E che dire dell’Italia?
«L’Italia, dopo la Brexit, è diventata la terza economia dell’Unione. Siamo, peraltro, in un momento storico in cui il governo italiano gode di una grande stabilità: che dipende, beninteso, da più fattori, tra cui anche l’opposizione stessa. Il nostro Paese può fare molto di più per portare avanti il percorso unitario, da vera protagonista del progetto europeo dal Mediterraneo».
A proposito di economia: quali notizie dal fronte automotive?
«Si può dire, sottovoce, che si vede una luce in fondo al tunnel. La problematica è articolata, ma la premessa è che l’industria deve evolvere. È la sua natura, si muove dal complesso al semplice. Il motore elettrico è molto più semplice di quello che fino ad oggi è stato prodotto. Tuttavia, un conto è accettare l’innovazione, un altro è orientarla e forzarla. Come purtroppo si è cercato di fare. La transizione è un obiettivo condivisibile, ma deve essere accompagnata. Sottoporre il comparto automotive a direttive e deadlines così precise, come quella del 2035, significa non tenere conto delle tempistiche che permettono al sistema di accogliere l’innovazione. Per ora, abbiamo osservato che le direttive dell’Unione Europea si sono limitate ad avvantaggiare ulteriormente chi già era in vantaggio nel mercato. In ogni caso, il bando al motore endotrermico verrà sicuramente modificato, se non addirittura rimosso».
Quali saranno i prossimi passi in questa direzione?
«Abbiamo definitivamente costituito una squadra in parlamento per approfondire il tema. La soluzione è possibile. Nonostante le resistenze che sono sorte da parte di alcuni terzi a Bruxelles, le carte ormai sono in tavola».
Non è l’unica sfida green alle porte.
«Certamente. Su questo fronte, l’Italia ha dimostrato una capacità invidiabile nella ricerca di soluzioni industriali sostenibili, che si tengono in piedi senza distruggere il sistema. Ma bisogna approfondire e muoversi chirurgicamente. Lo dimostra il caso dell’industria chimica, con il tema dei Pfas, materiali di grande utilità industriale ma difficili da smaltire. Solo una ventina sono pericolosi. L’Europa, anziché seguire l’onda del populismo ambientale, giocando sulla paura del cittadino, sceglie di entrare nel merito con consapevolezza, bandendo solamente quelli effettivamente pericolosi. Anche perché molti sono indispensabili, per esempio, nel campo della salute, negli ospedali. Si tratta di non lasciarsi abbattere dalla paura, e di giocare la partita ambientale con la giusta consapevolezza».
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