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Occhi di bambina su un mondo nero

Gina ha 10 anni e suo padre è fuggiasco per un intrigo tra crimine e politica. Sullo sfondo il caso Moro. Romanzo autobiografico alla ricerca della verità

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

03 Aprile 2024 - 05:15

CREMONA - «Racconto la storia di un politico democristiano perseguitato dai suoi compagni di partito perché sa troppo, un uomo che nell’estate del 1980 scappa da Napoli e la sua famiglia rimane coinvolta nel mezzo nel terremoto politico del post delitto Moro a ridosso degli anni di piombo, ma anche nel bel mezzo di un terremoto reale, quello dell’Irpinia del 1980, durante il quale aspetta invano il salvifico arrivo del papà. La storia è autobiografica, parlo di un padre, di mio padre, che fu latitante fino al 1987».

Non si nasconde dietro un dito Enrica Ferrara, che per il suo romanzo d’esordio, ‘Mia madre aveva una cinquecento gialla’, ha scelto una «storia piena di ferocia, bugie di adulti e intricati tradimenti politici», per dirla con le parole della grande scrittrice irlandese Catherine Dunne. Il romanzo è pieno di colpi di scena, la voce di Gina, la figlia del ‘democristian fuggiasco’ guida il lettore nel suo viaggio di scoperta della verità. Una ricerca in solitaria, non accompagnata dalla madre Sofia e dalla sorella Betta. Un percorso in cui vive anche momenti drammatici come quello dell’attentato dinamitardo al padre mentre era con loro a cena da presunti amici, o dell’identità falsa che ha dovuto assumere per poter raggiungere il genitore per una vacanza in Sardegna, o ancora della fuga da casa con un’amichetta per scappare dal dolore dell’abbandono. Terrore, stupore adolescenziale e senso dell’avventura si mischiano e si confondono nel cuore della bambina della quale passo dopo passo il lettore scoprirà l’evoluzione come persona. In questo senso è anche un avvincente romanzo di formazione.

copertina

«Il tempo cancella tutto tranne la paura», riflette a un certo punto Gina («Ginetta bella» per quello che lei chiama affettuosamente «il mio papaone»), alter ego dell’autrice. Che spiega: «È un sentimento assolutamente necessario ai giorni nostri, ripartire dalla paura significa non dimenticare che siamo stati vittime di sistemi in cui il governo era colluso con la mafia, con sistemi giudiziari e politici corrotti».

A differenza del protagonista del romanzo, Mario Carafa, il suo di padre - Angelo Ferrara - non ha mai ammesso di essere di essere colpevole. «Era innocente, non tutti gli credettero all’epoca, anche membri della sua famiglia. Lo dico anche nel romanzo, un uomo che scappa è colpevole per definizione». Carafa, invece, è colpevole e innocente allo stesso tempo, figlio di un clima politico, culturale ed economico torbido dove i buoni e i cattivi non esistono e tutti sono tutti un po’ uno e un po’ l’altro.

«Quella bambina l’ho ripescata dentro di me. Quando si parte da un vissuto forse si riesce a dare voce ai personaggi in maniera più compiuta. Gina nel 1980 aveva 10 anni, Enrica Ferrara idem. Ha un amore incondizionato per il genitore. In realtà tutte le bambine amano in maniera sviscerata i propri padri, salvo poi dover insomma anche fare i conti con il fatto che il padre - quest’uomo forte e onnipotente - in realtà è anche una figura debole». Gina prova con tutte le sue forze a comprendere cosa stia succedendo, cercando di decifrare il significato di termini per lei esotici come ‘capro espiatorio’, ‘latitante’, ‘brigatista’ e ‘camorrista’. Le sembra di capirne il senso, eppure più passa il tempo e più rimane confusa: suo padre è innocente o colpevole? È un politico o un camorrista? Chi sono i suoi amici e chi invece gli è diventato nemico?

Tra incomprensioni familiari, ribellioni adolescenziali, nuove amicizie e nuove avventure a bordo della sgangherata Cinquecento gialla di sua madre, Gina supera questo periodo difficile e si mette a investigare per conto suo per scoprire le vere ragioni che stanno dietro la latitanza di suo padre.

Questo è anche il romanzo di tre donne che alla fine sopravvivono alla sciagura che ha colpito la famiglia. Simbolo di questa rinascita è proprio la Cinquecento gialla della madre, che sbuffa, si ferma, ma poi riesce ad arrivare fino in Puglia per una vacanza che cambierà in qualche modo la vita di tutti. «La Cinquecento è la madre, è mia madre. Come la Cinquecento è un simbolo di debolezza apparente, ma in realtà di grande forza, una macchina con quattro marce, una in meno rispetto alle automobili degli uomini, come l’Alfetta del papà. La Cinquecento apparentemente da rottamare della madre invece porta le bambine in salvo».

L’ultimo incontro raccontato tra Gina, ormai donna, e Papaone è quello in cui vengono svelati tutta una serie di situazioni anche anche personali oltre che storiche, in un clima di grande intensità emotiva. «Ci sono riferimenti a momenti politici drammatici, si parla dei collegamenti tra i presunti mandanti del rapimento Moro e la vicenda di mio padre, o se vogliamo di Mario Carafa, perseguitato dai brigatisti ma anche dai democristiani. Nel romanzo c’è un 70 per cento di verità, il resto è finzione letteraria. Io vorrei semplicemente mettere gli storici su una pista poco esplorata, magari riprendendo in mano certi atti giudiziari». Un’operazione verità con sorpresa finale.

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