L'ANALISI
STRADIVARIFESTIVAL: L'INTERVISTA
16 Novembre 2022 - 05:20
CREMONA - Giacca di pelle, stivaletti e sciarpa al collo: «Scusi, Krylov, sa che lei è rock?». Il virtuoso russo cremonese sorride: «In scena però non mi vestirei mai così». Alla vigilia del concerto che venerdì sera al Museo del Violino lo vedrà protagonista dello StradivariFestival insieme alla giovanissima pianista Alexandra Dovgan, Sergej Krylov è stato ospite in redazione. Accompagnato da Roberto Codazzi, direttore artistico musicale dell’MdV, Krylov ha chiacchierato volentieri, raccontando di sé e del suo rapporto con la musica e con il pubblico.
Ha cominciato a suonare a cinque-sei anni. Ma come è stato possibile per un bambino così piccolo?
«Ho cominciato a suonare a quattro anni e mezzo, adesso ci sono bambini che giocherellano con lo strumento già a tre anni. Se si vuole intraprendere un cammino professionale cominciare a quell’età è assolutamente importante. Io cantavo quando ancora non sapevo parlare, i miei genitori hanno intuito il mio talento musicale e lo hanno assecondato. Erano musicisti, mia mamma insegnava pianoforte al conservatorio Ciajkovskij di Mosca e mio padre era liutaio: è stato lui a fare il mio primo violino quando, appunto, avevo quattro anni e mezzo. È come per lo sport, se vuoi farlo a un certo livello devi cominciare molto presto. Non puoi prendere in mano una racchetta da tennis e giocare quando vuoi. Il violino richiede molto impegno, più di altri strumenti. Inoltre, eravamo nell’Unione Sovietica degli anni Settanta. Era un Paese molto chiuso e solo la musica e lo sport potevano offrire la possibilità di uscire, c’era anche questo a motivarmi. Poi ho avuto la fortuna di avere degli ottimi maestri, penso a Kravchenko a Mosca e, qui in Italia, a Salvatore Accardo. Nel 2019, con Accardo, sono stato in giuria al Concorso Ciaikovskij di Mosca, il concorso più importante a livello internazionale, ed è stata un’esperienza molto bella ritrovarsi in quel contesto».
L’idea che abbiamo del bambino prodigio, però, non è sempre positiva. A volte, si ha l’impressione di un che di mostruoso...
«È vero», ride. «Ma resta il fatto che bisogna cominciare molto presto. Per suonare il violino ci vuole molta disciplina. Forse anche per questo tra i finalisti dei concorsi internazionali ci sono moltissimi coreani, cinesi, giapponesi. Sono stato recentemente nella giuria del Kreisler, a Vienna, e in finale non c’era neppure un italiano. Giuseppe Gibboni, un violinista che mi piace molto e che qualche mese fa ha vinto il Premio Paganini, ha cominciato a suonare da bambino. Lo ricordo ai concorsi, accompagnato dai genitori».
Quanto conta il talento?
«Ci deve essere, ma da solo non basta. Occorre sempre cercare di migliorarsi. È come nel balletto classico: penso ai grandi come Nureyev e Baryshnikov, in Italia potrei dire Bolle: il sistema è lo stesso, non puoi fermarti. Si fanno molti sacrifici, ma vengono fatti per la bellezza dell’arte»
Il successo ripaga tutti i sacrifici fatti?
«Rifarei tutto, non rimpiango nulla. Per me stare in palcoscenico è come stare in una zona a sé. Suonare dal vivo mi dà l’opportunità, anzi userei il termine possibilità di comunicare con le persone che mi stanno intorno, di seminare l’arte e il bello. Penso che sia un dono di pochi e credo che valga la pena anche sacrificare queste cose se uno possiede questo dono».
E poi c’è l’applauso. Nella musica, alla fine del concerto, ci sono alcuni istanti di silenzio e poi c’è l’applauso. Come spiegherebbe cosa significa l’applauso per un artista?
«C’è applauso e applauso. Da un po’ di anni è cambiato il mio modo di suonare con il pubblico. Naturalmente a me fa tantissimo piacere vedere e sentire il pubblico. Ma tutto il processo musicale, l’interpretazione e l’esecuzione io non lo faccio più per il pubblico. Il pubblico è presente e testimonia questo processo, testimonia la mia apparizione sul palcoscenico con il violino in mano. Suono per qualcuno che non è il pubblico».
Chi è questo qualcuno?
«È un insieme di cose. Prima di tutto la volontà del compositore, perché a sua volta il compositore è stato illuminato da qualcuno che sta molto in alto. Il compositore riceve questo segnale divino, la divinità la vediamo per esempio in Franck, in Beethoven, in Schubert, i compositori che sentirete venerdì. Senti questo canale divino per tante ragioni: per la geniale armonia, per la forma, per qualcosa che è davvero collegato alla divinità. È un canale assolutamente positivo di armonia, di amore, di pace. Durante il Covid ho sperimentato una situazione assolutamente nuova, che non avrei mai immaginato: i concerti on line. Il pubblico non c’era, ma c’erano le camere e diecimila persone che ti stavano guardando. In sala non c’era nessuno, ma sono stati i concerti in cui la mia concentrazione è stata al massimo. Questo mi ricorda Glenn Gould, perché GlennGould a un certo momento ha smesso di suonare per il pubblico e faceva solo registrazioni. Ora, io non sono a questo estremo, ma ho capito il meccanismo perché io non suono per il pubblico presente, il pubblico è testimone di quello che sto facendo».
Sta dicendo questo nella città di Mina, assente dalle scene dal 1978. Zuckeberg direbbe che è il primo passo verso il metaverso...
«La musica è una cosa a sé e avviene sul palcoscenico. Questa è la sottile ma importante differenza tra le mie sensazioni di quindici anni fa e quelle di oggi».
Un suo collega, Alessandro Quarta, alla vigilia di un concerto allo StradivariFestival, ha detto che ciò che conta è l’interpretazione, la musica è una natura morta e solo il musicista può farla vivere. Lei è d’accordo?
«Dipende dalla musica. Può essere così, ma faccio fatica a pensare che il Concerto n. 1 di Paganini sia una natura morta. Forse è un po’ congelata, ma noi la scongeliamo. Un musicista famoso, di cui non faccio il nome, mi ha chiesto se la musica può esistere senza i musicisti. Esiste il libro senza uno che lo sa leggere? Il musicista è una parte importantissima, qualcuno deve pur aprire la partitura e interpretarla. L’idea c’è, ma non mi piace definire la musica una natura morta. Anche congelata, pensandoci, è brutto da dire», ride. «Diciamo che è addormentata».
Visto che il pubblico è testimone di ciò che fa, c’è differenza tra quando suona in concerto e quando prova?
«Assolutamente. La differenza è abissale. La differenza è nella responsabilità del momento, non si può tornare indietro».
Le è mai capitato di fare errori?
«Sì, è normale farne, capita a tutti. Si va avanti».
Lei è abituato a stupire il pubblico: solista, direttore, con l’orchestra... venerdì sarà accompagnato da Alexandra Dovgan, una pianista di soli quindici anni.
«Credo che ogni programma di sala debba avere delle caratteristiche proprie. Alexandra è una musicista fantastica, la nostra è una sfida. Mi piacciono le sfide, le sfide con me stesso. Era una sfida il programma qui dello scorso anno, ne faccio sempre con la mia orchestra lituana e ne ho fatte recentemente a Foggia e a Palermo. Questa forse non è una sfida, ma è un confronto tra due musicisti con grande differenza di età che credono di avere lo stesso linguaggio musicale. La musica è una lingua e ci sono musicisti che possono non parlare la stessa lingua musicale. Venerdì l’esperimento è di proporre un programma di grandissima musica, di grandi capolavori. Vedremo, sono curioso anch’io. Lei ha un talento straordinario, vedremo. È la prima volta che suoniamo insieme».
Sempre in giro per il mondo, ma a Cremona torna sempre volentieri.
«Cremona è una città speciale, avevo 18 anni quando sono arrivato. Le auguro di continuare in questo percorso iniziato da tempo grazie alla musica e alla liuteria, al Museo del Violino, a molte realtà. Lo StradivariFestival è una rassegna riconosciuta a livello mondiale, ne va dato atto alla Fondazione Arvedi Buschini che lo sostiene e tutti i sostenitori e gli sponsor che portano Cremona nell’Olimpo. L’abbiamo sempre sperato e ora».
Qualche giorno fa al Museo del Violino è stato presentato il Violino del Mare, realizzato nel carcere di Opera con il legno dei barconi dei migranti. Alla musica e ai musicisti spesso è chiesto di impegnarsi nel sociale o addirittura di prendere posizioni politiche. Lei cosa ne pensa?
«Domanda difficile, dipende dal contesto. La musica può, deve essere un traino per la pace e i musicisti hanno l’obbligo dell’impegno in questo senso. Gli artisti sono operatori di pace».
È bello sentire un russo parlare di pace.
«Sono un russo particolare, vivo in Italia da trentatre anni. Ma sono contro ogni guerra e considero la musica uno strumento di pace. Ricordo, quando ero ancora un ragazzino in Unione Sovietica, di aver fatto parte di una delegazione in Cina. Tra Urss e Cina i rapporti erano molto tesi e la delegazione di cui facevo parte era la prima apertura, era una delegazione di pace. Era il 1986, avevo 15 anni. Purtroppo non avevo con me la macchina fotografica, ma ricordo di aver visto con i miei occhi centinaia di migliaia di persone vestite tutte uguali che si spostavano in bicicletta. Quel viaggio è rimasto nella mia memoria. I musicisti devono essere al di fuori della politica e farsi portatori de pace. La musica è pace».
C’è tempo per un’ultima emozione. Krylov imbraccia il violino fatto da papà Alexander nel 1994, lo accorda e suona il finale della Sonata n. 2 di Eugène Ysaÿe e, su richiesta del presidente della Libera e della Sec Riccardo Crotti, una pagina dell’Estate di Vivaldi. In redazione il ticchettio dei computer si interrompe per qualche minuto, l’ultima parola è un applauso sentito, sentitissimo.
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