L'ANALISI
20 Febbraio 2024 - 18:44
Lo storico coach Nick Cabrini
CREMONA - Per una piccola città di 70.000 abitanti è un grande vanto nel campo sportivo avere due squadre nelle massime competizioni di basket, una in A, la Vanoli, ed una in A2 la JuVi. Ma è Guido Nick Cabrini, che è stato il primo ad avere portato Cremona sul palcoscenico del basket italiano con il Corona, la società dei fratelli Reggiani. Ci sembrava doveroso ripercorrere la storia di questo personaggio, schivo, timido, di poche parole, ma che ha lasciato il segno. Non manca mai alle partite dell’una o dell’altra formazione cremonese e i suoi lapidari commenti su un giocatore o una squadra sono sempre appropriati e ficcanti. Cabrini inizia a giocare negli anni Cinquanta nella Floris, in seguito al Cittanova Basket poi alla JuVi, mettendosi in mostra per il tiro dalla lunga distanza e per la difesa aggressiva. È proprio dai tempi in cui giocava che gli è rimasto il soprannome di Nick, dal fumetto Nick Carter, il poliziotto volante, per la sua velocità in campo. Si appassiona da subito all’aspetto tecnico e allena diverse squadre cremonesi, dalla Sas di Sant’Abbondio, alla Floris e nel 1968 inizia la sua scalata ai campionati nazionali con la maglia della JuVi.
«Ho iniziato a interessarmi al lato tecnico del basket già quando giocavo, ma non per fare l’allenatore. Volevo capire il gioco, conoscerlo nei suoi vari aspetti. Mi facevo arrivare dagli Stati Uniti i libri dei grandi allenatori di college, da Dean Smith di North Carolina, a John Wooden di Ucla, a Bobby Knight di Indiana, come anche sacrificavo le ferie per frequentare i corsi Fiba a Macolin in Svizzera e a Edinburgo e io e Arnaldo Taurisano prendemmo l’abilitazione europea come allenatori. Ho preso molte delle mie conoscenze tecniche da Arnaldo Taurisano per l’insegnamento dei fondamentali e da Bobby Knight per la gestione della partita. La difesa è sempre stata la base del mio credo cestistico, soprattutto la match-up, una difesa mista che avevo iniziato a conoscere osservando Asa Nicolic, il mitico allenatore del Petrarca Padova e poi dell’Ignis Varese».
Dopo alcune altre esperienze come allenatore, nel 1978 viene chiamato dai fratelli Reggiani alla guida del Corona in Serie C, che porta con una cavalcata esaltante in A2, dove retrocede per poi tornare immediatamente in A2 e ottenere il miglior risultato nel campionato di A2 con il settimo posto e la nomina ad Allenatore dell’Anno. Porta in seguito la JuVi in serie B nel 1993 e termina la sua carriera di allenatore l’anno successivo. Un suo marchio di fabbrica è sempre stato il ‘baffo che fulmina’: quando iniziava a tormentarsi il e arrotolarsi il baffo tra due dita voleva dire che qualcosa stava per succedere: o stava per ad arrabbiarsi o stava studiando una persona o un giocatore prima di parlare. In tutta la sua carriera non ha mai cercato una squadra, ma è stato cercato da diverse squadre, come anche da Venezia e Forlì, ma la famiglia è sempre stata la sua priorità che l’ha spinto a non trasferirsi in altre città per allenare. «Il basket mi ha lasciato tanti bei ricordi e tanti amici e la gioia di aver vissuto assieme con un gruppo di persone, giocatori e dirigenti, con cui ho condiviso tante esperienze. Non ho un giocatore in particolare con cui ho legato maggiormente, ma provo affetto nei confronti di tutti i giocatori che ho avuto e, a differenza delle squadre odierne, ho avuto giocatori che sono stati con me per 6-7 anni e con i quali c’è stato rispetto reciproco ed amicizia».
Grande giocatore di carte, in grado di leggere le mosse degli avversari seduti attorno ad un tavolo, e che ha traslato questa capacità su un campo da basket, Cabrini ha annoverato ben sei promozioni, due dalla serie C, due dalla Serie B e due in A2. «Ma una delle più belle soddisfazioni è stata la vittoria in un torneo giovanile sul mitico campo in terra rossa della Canottieri Baldesio dove sconfiggemmo con una selezione di giocatori cremonesi grandi squadre giovanili di Ignis e All’Onestà con i vari Caglieris, Malagoli, Bertolotti, che poi giocarono in Nazionale».
E il basket attuale? «È fatto solo di individualità, di giocatori con meno intelligenza cestistica, e tanta fisicità, c’è poca tattica, è basato su giocatori egoisti che palleggiano per secondi e secondi e poi tirano da tre punti. È sparita la mentalità collettiva, la vera base del basket».
Come sempre in Italia, non solo nello sport ci si dimentica del passato e delle persone, che ancora oggi potrebbero, con la loro esperienza e passione, dare ancora molto, mentre ti scrutano e ti studiano, arrotolandosi il baffo con due dita.
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