L'ANALISI
15 Novembre 2023 - 08:50
Mauro Bosio
CREMONA - «A 4 anni ero in già in campo. Mio papà era un tennista amatoriale, ma mi ha trasmesso la passione per questo sport. Poi è subentrato qualcosa che era solo mio. La mia voglia di essere il migliore, di fare tutto al meglio. E così a 5 anni ho iniziato a fare lezione con una maestra un’ora e mezza al giorno, a cui ne aggiungevo altre 3/4 nella cascina del nonno a giocare in modo autonomo senza sosta contro il muro. Avevo già deciso da lì che il tennis sarebbe stato la mia strada». A raccontarsi e raccontare la sua storia è Mauro Bosio, per tanti anni giocatore di serie A di tennis nella Baldesio, ma che nella sua carriera, è stato anche nei primi trenta giocatori d’Italia. La vita gli ha riservato un talento indiscusso, ma lo ha consegnato ad un destino che aveva evidentemente altro in serbo per lui. Oggi a 36 anni, Bosio è un manager di successo, ma la competizione gli è rimasta nel sangue e le sirene del padel lo stanno tentando da un po’.
Ma torniamo al passato, per capire meglio il suo presente.
«A 6 anni ho iniziato con i primi tornei. C’era una gara molto importante, il circuito di Natale sul Bresciano. Io l’ho vinto più volte sia nella mia categoria che in quelle superiori. E così a 12 anni è arrivata anche la prima convocazione in Nazionale. Ho vinto tanto in quel periodo e sono arrivato n semifinale nel massimo torneo italiano dell’epoca, come aveva fatto Fognini. Sono stato tra i primi quattro giocatori d’Italia fino a 14/15 anni, poi è successo qualcosa. Ho cominciato ad avere problematiche fisiche invalidanti, ma non so quanto ci fosse di psicologico nei miei lancinanti dolori alla schiena. Mi allenavo anche nel modo sbagliato probabilmente. Correvo pochissimo, ma in compenso facevo tanto lavoro in palestra e non mi ha fatto bene. Mi sono reso conto che mi stavo allontanando dal tennis, ho pensato proprio di abbandonarlo completamente».
Al punto che un bel giorno...
«Ho preso il mio scooter e da Quinzano, il paese nel bresciano in cui vivevo, ho portato un curriculum al centro commerciale di Verolanuova candidandomi a prendere un posto da macellaio part time. È stato davvero il momento più difficile della mia vita. Mi allenavo talmente tanto che ero in sovraccarico totale. E poi ero debilitato da questi dolori forti alla schiena per cui nessuno trovava una causa e di conseguenza una cura. L’allenatore che avevo allora mi stava prosciugando e io non ne potevo più. Quando sono rientrato a Quinzano quel giorno stesso però, ho visto una macchina parcheggiata davanti a casa. Era quella di Tommy Tavella, il consigliere Baldesio del tennis di allora. Si era preso la briga di venire a casa mia comprendendo il disagio che stavo provando. E così mi disse: ‘so della scelta che stai prendendo. Se è un problema fisico non discuto, ma se per qualche motivo dovessi capire che è una questione di testa, vieni da noi in Baldesio ad allenarti gratis. Sarebbe un peccato che mollassi il tennis’. Ho deciso di fidarmi delle sue parole e quindi mi sono trasferito alla Baldesio. È stata una buona decisione. La migliore che potessi prendere. Da terza categoria nel giro di due anni passai a 2.5, poi a 2.1 e arrivai a essere nei primi 30/40 giocatori d’Italia. Era il 2010. Io fino ai 22/23 anni non ho fatto attività internazionale, perchè guadagnavo bene. Mi aggiravo attorno ai mille euro e passa a settimana e mi stava benissimo così. Anche perchè era tutto molto costoso e io venivo da una famiglia che stava bene, senza navigare nell’oro però. Per rispetto loro non andavo all’estero. Della mia famiglia e anche di mia sorella più grande che faceva un lavoro ‘normale’. Non ho mai voluto pesare economicamente a casa mia. Facevo quello che mi potevo permettere da solo. E così ho iniziato a fare professionismo a Bergamo a 23 anni. Lì c’era il centro migliore del nord Italia. Una qualità davvero eccellente. Mi allenavo con Menga, Stoppini, Laurynas Grigelis. Era davvero un bel team di allenamento. Stavamo in campo dalle 8.30 alle 17.30. In quel periodo tutti i miei soldi li ho messi in allenamenti, spostamenti, gare. Giravo a fare tornei all’estero, fino all’infortunio che mi ha costretto a smettere con il professionismo».
Ci spieghi.
«Ero in Serbia, avevo 26 anni. Mi sono rotto la caviglia destra giocando su un campo al limite del praticabile. Continuava a piovere e il campo in terra rossa era orribile. Gli organizzatori continuavano ad aggiungere terra, ma sembrava terra da giardino, piena di sassi. La compattavano in qualche modo e ho finito col prendere una buca. Mi hanno portato via in ambulanza direttamente dal campo. Una lastra ha confermato una brutta frattura. Tornato in Italia sono stato costretto a portare per sei mesi le stampelle. Appena mi sono sentito nelle condizioni e dopo un mese di allenamento, sono poi ripartito per la Francia e per sei mesi sono andato avanti a fare tornei in giro. Fino a quando la situazione è diventata insostenibile. Non era possibile per me sopportare tutte quelle spese. E così ho smesso... Avrei dovuto insistere forse? Mi sono pentito di aver smesso? Probabilmente la risposta è sì ad entrambe le domande. Ma credo che sia successo quello che doveva succedere. Giusto così, non ho rimpianti».
Pensieri?
«Certo se avessi la testa che ho oggi, magari affronterei la cosa in modo diverso, saprei come parlare a quel Mauro di 10 anni fa e suggerirgli le scelte giuste. Ma alla fine sono un uomo realizzato e va bene così. Quando mi sono staccato dal professionismo e ho iniziato ad insegnare, ho continuato comunque con la serie A. Mi sarebbe piaciuto fare qualche anno in più. Se penso a tutti i sacrifici che ho fatto...».
Una vita dura.
«Viaggiavo spesso da solo perchè non potevo pagarmi un allenatore che venisse con me. In Israele una volta, mi sono trovato a contrattare il prezzo di un paio di scarpe nuove perchè mi si sono rotte e non ne avevo due paia con me . Le ho acquistate contrattando su una cifra di 20 dollari. Comunque credo di essere stato bravo, anche se non come mi sarei aspettato. Sono arrivato ad essere il numero 28 del ranking italiano nel 2014 e non è proprio da tutti. In serie A ho vinto anche contro Friederick Nielsen che ha vinto Wimbledon nel 2012 in doppio. Era il 180 al mondo e ha perso con me. Uno dei più forti contro cui ho giocato è certamente Murray, ma anche Dolgopolov, che era nei primi 20 del mondo. In nazionale mi allenavo con Fognini. In giro per l’Europa qualche volta è capitato anche di avere nel campo vicino Djokovic».
Ma lei a chi si ispirava?
«Ho sempre avuto due grandi miti. Il primo è Pete Sampras che non rispecchiava il mio modo di giocare, ma aveva un autocontrollo che io non avevo e gli invidiavo tantissimo. Inoltre mi allenavo pensando al suo servizio. Poi finito lui, è diventato Nadal il mio idolo. Mi ha impressionato una frase che ha detto un giorno raccontando della sua vita da professionista: ‘Gioco mediamente 60/70 partite all’anno. Il giorno in cui l’aria è fresca, non hai dolori, non c’è vento e ti senti davvero bene, sono al massimo 4 o 5. Tutte le altre, ti devi arrangiare con quello che hai’. Ed è la verità. Sacrosanta. Muscolarmente è quello che ha sofferto di più e io so cosa vuol dire».
Oggi del giocatore che è stato cosa è rimasto in lei?
«Del tennista è rimasto quasi nulla, se non la convinzione che non si fanno a metà le cose. O dai il massimo o non le fai. La competizione me la porto ancora dentro invece. È con me in ogni cosa che faccio e mi serve per farla al meglio. Ho molto più autocontrollo oggi, anche se, se mi sentissero dire questa frase quelli che giocano con me a padel, riderebbero. Il padel è una passione. recente. Ho già vinto due tornei e ora credo che l’obiettivo di una parte di me, sia quello di provare ad arrivare in alto anche in questo sport. Ma non lo dico ad alta voce, forse neanche a me stesso. Il fuoco non si è spento però. È quello che mi tiene vivo da sempre...».
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