L'ANALISI
CULTURA E SPETTACOLO
22 Febbraio 2017 - 17:22
una scena dello spettacolo
Mercoledì 25 gennaio al teatro Ponchielli è andato in scena lo spettacolo 'Questo è il mio nome' della compagnia Il teatro dell’Orsa, presentato da cinque ragazzi richiedenti asilo e rifugiati del Senegal, Costa d’Avorio, Mali, Nigeria, Gambia.
Da un laboratorio nato con lo scopo di promuovere l’integrazione, si arriva ad uno spettacolo vero e proprio, ottenendo il Premio del Pubblico al Festival di Resistenza, il Premio Museo Cervi e, dopo due anni, viene ancora proposto nei teatri d’Italia riscuotendo il consenso del pubblico. Il teatro diventa l’occasione per essere visibili, per raccontare la propria storia della nascita, della fanciullezza o le ultime raccomandazioni della madre prima di partire; un estremo saluto, con la speranza nel cuore di un futuro migliore.
“Chi metterebbe se stessi o i propri figli su una barca, non sapendo quale sorte ti possa attendere, se non ci fosse la certezza che la terra che stai lasciando è peggio di un pescecane?”. Così recita la narratrice, scuotendo le coscienze sulle vere ragioni del loro viaggio, come uomini scappati da una morte certa. La scenografia è assente e scura, animata dagli stessi che si muovono con vestiti colorati a braccia aperte, recitando con un italiano semplice e a volte ripetitivo. “Sei mai stato felice?”, domanda che apre lo spettacolo lasciando spazio ai racconti di terre e tempi ormai lontani. Tanti 'Odissei' pronti a un viaggio che molto probabilmente, però, non avrà un ritorno ma che è sicuramente carico di speranza, forza, voglia di fare con dignità e con un unico patrimonio: il proprio nome e le proprie esperienze che danno vita a un sogno da ballerino, muratore, calciatore, cantante o altro. La stessa volontà di rifarsi una vita che gli italiani hanno condiviso un tempo, ricordandola con la canzone introdotta da Ezekiel 'Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar'. Unica struttura della scena: cinque assi che formano la porta di casa di ognuno di noi; ciascuno di loro entra offrendo il proprio aiuto, le proprie esperienze e conoscenze ma l’unica risposta è “No”. “Tu mi vedi? I can see you” ripetono in coro i protagonisti alla fine dello spettacolo; un grido di richiamo, la voglia di essere qualcuno e di essere riconosciuto come tale davanti agli altri, considerandoli non come immigrati ma uomini con un nome e un vissuto, speranzosi di felicità anche in terra straniera.
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