L'ANALISI
15 Aprile 2014 - 18:10
Delle quattro comunità che i Missionari Saveriani gestiscono nel paese africano, forse questa è la meno facile: isolata per quattro mesi durante la stagione delle piogge, secca e povera durante il resto dell’anno, altra regione e altra diocesi, 82 comunità da incontrare almeno due volte all’anno e fino a più 200 km di distanza su strade sterrate pessime. E per raggiungere alcune comunità è necessario attraversare la frontiera (a poco meno di venti chilometri) per poi rientrare in territorio mozambicano.
Charre è terra arida in mezzo a due grandi fiumi, in linea d’aria equidistante circa una ventina di chilometri da entrambi: a ovest lo Zambesi e a est lo Chire, che nace dal lago Niassa per gettarsi proprio nello Zambesi poco distante da qui. Charre è villaggio di capanne sparse a ridosso della strada sterrata che porta a nord, in Malawi. L’energia elettrica non è ancora arrivata: l’hanno fermata a Bawe, il villaggio otto chilometri prima. Qui nella savana, appena sotto il diciassettesimo parallelo dell’emisfero australe, il sole conosce poco le stagioni e alle diciotto circa, rapido e puntuale durante tutto il corso dell’anno, scivola dietro le colline scavate nei millenni dalla forza delle acque del grande fiume Zambesi.
«Charre - scrive don Andrea agli amici italiani - è la vasta pianura dello Chire, con il monte Morrumbala che si erge imponente a distanza. Charre è anche terra di colline ripide in prossimità dello Zambesi: in mezzo ad alberi secolari – sembrerà strano, ma i cinesi non sono ancora passati di qui – la gente ha ritagliato i suoi campi coltivati a miglio, sorgo e mais, che resistono perché i raggi del sole arrivano più obliqui che in pianura e la montagna trattiene l’umidità necessaria. Charre è terra di capre, ma la regina qui è la vacca, che è certezza matematica di sopravvivenza».
Dunque per padre Facchetti un nuovo inizio, che significa ricominciare a conoscere volti e storie di vita, a tessere le relazioni, ad imparare le strade per arrivare alle comunità memorizzando i punti critici per non rimanere impiantato con la jeep, ma a cercare i luoghi dove trovare silenzio.
L’arrivo del missionario viadanese è coinciso con l’inizio dello “Ndzidzi ya Ntsiku Makumanai”, letteralmente “il periodo dei quaranta giorni”, cioè la Quaresima. «Il colore liturgico è il viola – ricorda padre Facchetti –. E il colore viola, presso il popolo Sena, esiste come concetto, perché il viola si dà nella realtà, ma non esisteva come parola. In maniera molto icastica, per dare un nome al concetto del viola, si è coniata l’espressione “Nsuzi ya nyemba”, che significa “il bruciato dei fagioli”. Con uno sforzo di immaginazione notevole, i fagioli bruciati possono avere un colore che vagamente ricorda il viola».
«Più problematica – continua il missionario – è la questione del digiuno, uno dei pilastri del tempo di Quaresima, che presso il popolo Sena non esiste neppure come concetto. Del resto, è difficile solo pensare il concetto di digiuno in una realtà dove la fame è problema endemico quotidiano e dove per dire “grazie” si dice “takhuta”, verbo al quale si ricorre alla fine del pasto per esprimere la sazietà e che comunica la pienezza della gioia nelle sue molteplici dimensioni. Ecco allora che per rendere una parola come il digiuno, della quale neppure esisteva il concetto, si è coniata l’espressione “nyatwa ya njala”, che letteralmente significa “sofferenza della fame”. In effetti, è difficile negare che la decisione deliberata e volontaria di non mangiare, in un contesto dove l’assenza del mangiare è preoccupazione reale, non sia una sofferenza».
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