L'ANALISI
Cremona. Stagione concertistica
13 Febbraio 2015 - 18:15
Se è vero che Mozart fu un punk della sua epoca, allora giovedì sera (12 febbraio) lo spirito del discolo Amadeus ha folleggiato con vena irriverente e scherzosa da un lato all’altro del palco del Ponchielli, ingombro di strumenti decisamente inusuali per l’esecuzione del capolavoro Il flauto magico. A far risuonare marimba e djembe, kora e chitarra elettrica (e molto altro ancora) sono stati gli straordinari strumentisti dell’Orchestra di piazza Vittorio, collettivo ‘arcobaleno’ assemblato da Mario Tronco sotto il segno della ricerca e della contaminazione dei linguaggi musicali. Il singspiel mozartiano è stato trasfigurato in un lungo viaggio sonoro fra i quattro angoli del globo. Perché la band — composta da musicisti di ogni razza e colore provenienti da mezzo mondo — è artefice e portavoce di una koinè musicale che germina nella commistione tra reggae, ska, ritmi africani e melodie di derivazione orientale con il rock, il jazz e le torride suggestioni del Sudamerica. Musica cosmopolita in cui colori, stili, lingue e tradizioni diverse si mescolano in un ardimentoso mélange di suoni glocal. Non uno sgarbo alla classicità dell’opera lirica, ma un complesso e coraggioso intervento di rilettura che focalizza l’attenzione sui grandi sentimenti di umanità, bontà e fratellanza contenuti nel plot de Il flauto magico. I vagabondaggi sonori dell’Orchestra prendono così forma in uno spettacolo a metà tra il musicale e il politico (alla faccia della matrice massonica dell’opera mozartiana...): un «concerto scenico» che intende lanciare un messaggio di speranza, invitando a riflettere su come il multiculturalismo possa essere una risorsa preziosa in quel cammino che porta all’unione ideale di tutti gli esseri umani. Al di là delle differenze di razze, ideologie e religioni.
Mozart non resta semplicemente sullo sfondo con la sua meravigliosa favola, ambientata in un antico Egitto irreale e fantasioso: nello spazio scenico meticcio del Ponchielli, avvolto in un’aura fiabesca, le melodie e gli eccezionali giochi armonici costruiti dal maestro di Salisburgo emergono nitidamente dalla superficie di un flusso di note stravagante e travolgente, che trascina lo spettatore in un mondo pazzo e variopinto, visualizzato didascalicamente dalle immagini in movimento proiettate sul fondale della scena. Il gorgoglio delle tabla suonate dall’indiano Sanjay Kansa Banik inghiotte i celebri tre accordi d’attacco dell’opera; un tempo di bossa nova scandisce la melodia d’amore fischiettata squisitamente del Tamino interpretato dal cubano Awalys Ernesto Lopez Maturell; una chitarra acustica imbastisce una pop-song quasi broadwayana cantata dalla Pamina d’Albione Sylvie Lewis; l’immortale aria della Regina della Notte (l’ottimo soprano Maria Laura Martorana) si fa strada in un nugolo di suoni che relegano i violini al ruolo di comprimari; la voce di Papageno (a cui presta la propria esuberante fisicità il senegalese El Hadji Yeri Samb) traccia una linea vocale rap su un inaspettato beatbox; l’accento afro-napoletano del narratore Omar Lopez Valle tocca persino i tasti della comicità: ogni istante di questo Flauto magico assume una direzione imprevedibile, deragliando dai binari della mera esecuzione per inseguire qualcosa di più impalpabile ed emozionante.
Riccardo Maruti
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