L'ANALISI
09 Giugno 2020 - 11:07
MILANO (9 giugno 2020) - Sono positivi i risultati dei primi malati di Covid-19 trattati a domicilio con la colchicina, molecola antinfiammatoria nota fin dall’antichità, e usata oggi per trattare gotta, pericarditi croniche e malattie auto-infiammatorie con febbri periodiche. L’Ospedale San Raffaele di Milano l’ha testata a marzo in un piccolo studio, pubblicato sulla rivista Clinical Immunology, su 9 pazienti ad alto rischio di peggioramento. La ricerca, condotta dall’immunologo Emanuel Della Torre e coordinata da Moreno Tresoldi, primario dell’Unità di Medicina Generale, sottolinea l'importanza di agire tempestivamente per ridurre il rischio di una possibile progressione in insufficienza respiratoria e affluenza dei casi critici negli ospedali. «Abbiamo dato la colchicina a 9 pazienti domiciliari che, col passare dei giorni, avevano manifestato caratteristiche cliniche di un’evoluzione iper-infiammatoria» spiega Tresoldi. In circa il 30% dei casi di Covid-19 si assiste alla comparsa di febbre alta, tosse e affaticamento respiratorio. «Questi pazienti sono i più a rischio di ricovero - continua Tresoldi - e di supporto ventilatorio, poiché la dispnea evolve rapidamente in insufficienza respiratoria». Tutti i 9 pazienti trattati a domicilio si sono sfebbrati entro 72 ore «con risoluzione della tosse e solo in un caso è stato necessario il ricovero per un supporto di ossigeno a basso flusso», aggiunge Della Torre. La colchicina sembra agire sulle molecole responsabili della 'tempesta infiammatorià osservata in molti malati, impedendo l'eccessivo accumulo di cellule infiammatorie nei tessuti e ostacolando l’ingresso del virus nelle cellule. «Servono studi più vasti per confermare questi risultati - rileva Tresoldi - ma la colchicina, diffusa in tutti i paesi del mondo e a basso costo, è una molecola già disponibile per il trattamento del Covid-19. Agire sul territorio è fondamentale per intercettare precocemente la risposta infiammatoria scatenata dal virus ed evitare la progressione in insufficienza respiratoria dei pazienti più a rischio».
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